Giorgio Barberio Corsetti e Stéphane Braunschweig, dopo il primo incontro a Digione nel 1991, pensano, incuriositi l’uno dalle produzioni artistiche dell’altro, ad una possibile collaborazione che renda le differenze linguistiche, ma soprattutto stilistiche (l’approfondimento delle tecniche di training per l’attore e l’interazione tra questo e il video per il primo ed una attenta e profonda analisi del testo per il secondo) il nucleo originario di un lavoro comune. Il mantello del Diavolo nasce proprio da questi presupposti: un’opera concepita fin dall’origine per esistere nelle due versioni linguistiche – francese e italiana – e con ruoli scambiati fra gli attori dell’una e dell’altra nazionalità.
Partendo dal XXV capitolo del romanzo Il Doctor Faustus di Thomas Mann, il testo interseca brani dagli scritti di Christopher Marlowe, Johann W. Goethe, Hans C. Andersen e Charles Baudelaire, determinando la nascita di un altro capitolo della lotta fra razionale ed irrazionale.
Accanto ad un pianoforte si svolge il dialogo tra un musicista in crisi, Adrian Leverkühn, ed il Diavolo. E se la fine del compositore è ormai vicina (è malato di sifilide), il suo destino deve ancora compiersi. Potrebbe infatti diventare un geniale compositore, se, utilizzando creativamente le allucinazioni della sua malattia (del suo Inferno certo), decidesse di abbandonare la ragione paralizzante a favore di un istinto che somiglia ad uno scatenamento dell’irrazionale. In una scena dove i monitor ripropongono le azioni degli attori, rielaborate, “fratturate” e mescolate con le immagini di Fabio Iaquone, Mefistefole regala a Faust il viaggio nel mondo reale, ma, a sua insaputa, lo conduce anche nell’Inferno di un mondo virtuale dove a prevalere è la finzione e la vana spettacolarizzazione del tutto. Sequenza 14: “Cos’è che è reale?”.
Testo Il Doctor Faustus di Thomas Mann (dal capitolo XXV), frammenti da testi di Christopher Marlowe, Johann W. Goethe, Hans C. Andersen, Charles Baudelaire
Ideazione e realizzazione Giorgio Barberio Corsetti e Stéphane Braunschweig
Interpreti (in ordine di apparizione) Gabriele Benedetti (Faust 1 – Adrian Leverkühn), Roberto Rustioni (Méphisto 1 – Il Diavolo), Pierre-Alain Chapuis (Méphisto 2), Claude Duparfait (Faust 2), Flore Lefebvre des Noëttes (La Strega di Andersen, Margherita)
Musica Gualtiero Dazzi
Luci Marion Hewlett
Video Fabio Iaquone
Direttore di scena Thierry Borba Da Costa
Scenografia Mariano Lucci
Bicchieri musicali Jean-Claude Chapuis
Amministrazione Marisa Amante e Laura Brizzogara (Compagnia Giorgio Barberio Corsetti), Didier Juillard (Théâtre- Machine)
Produzione Compagnia Giorgio Barberio Corsetti, Festival Romaeuropa, Théâtre-Machine – Artemps (Digione)
Realizzato con il sostegno di Conseil Régional de Bourgogne, DRAC Bourgogne, AFAA (Association Française d’Action Artistique), ONDA e Ministero Italiano del Turismo e dello Spettacolo.
Sequenze
1. La visita (Mann)
2. Il patto (Marlowe)
3. Dalla malinconia alla grande allegria (Mann)
4. Le sofferenze della Sirenetta (Andersen)
5. La malattia (Mann)
6. Il vampiro (Baudelaire)
7. I vantaggi dell’irrazionale (Mann)
8. Il presentimento di Margherita (Goethe)
9. Dall’arte alla barbarie: la lezione di musica (Mann)
10. L’autodafé (Goethe)
11. L’inferno senza amore (Mann)
12. L’uscita nel mondo (Goethe)
13. L’insonnia di Margherita (Goethe)
14. Cos’è che è reale? (Goethe)
IL MANTELLO DEL DIAVOLO
di Gianfranco Capitta
Giorgio Barberio Corsetti e Stéphane Braunschweig sono due registi giovani, rappresentativi entrambi di quanto di nuovo esiste sulla scena dei rispettivi paesi, l’Italia e la Francia. Ancor più significativa è la decisione di mettersi a lavorare insieme, di firmare insieme questo Mantello del Diavolo, rompendo la regola dell”autismo’ creativo propria di quasi tutti gli artisti.
Il loro incontro è avvenuto del resto ‘sul campo’ del palcoscenico, nel ’91 a Digione, mettendo in scena per quel festival di maggio ognuno un proprio spettacolo: Descrizione di una battaglia e Aiace.
Barberio Corsetti ha elaborato in tanti anni di teatro una tecnica corporea dell’attore che, prendendo da Mejerchol’d come da Steve Paxton, fa sconfinare la recitazione nella danza, in un codice di immediata e internazionale comunicazione. E ha fatto entrare nella lingua del teatro l’uso delle tecnologie televisive, rendendo l’immagine video una presenza concreta e ricca di senso. Per poi tornare, con questa strumentazione acquisita, al ‘test’, rappresentato dalla scrittura di Kafka o dalle proprie elaborazioni originali.
Braunschweig invece, con una carica non differente né inferiore di antinaturalismo (quella che gli consente di portare in scena un acclamato Giardino dei ciliegi con attori giovanissimi reinventando Cechov e le sue “vecchiaie”), ha intrapreso un uso del tutto nuovo del testo, scoprendone potenzialità nascoste. Una curiosità, quella di uno per il lavoro dell’altro, quasi inevitabile, e che si è radicata in interesse per un lavoro diverso dal proprio, ma che trova un fondamento nella ‘musicalità’ del rapporto di entrambi con il tempo e con lo spazio. E che li porta ora a mettere insieme le loro esperienze, in uno spettacolo che proprio sullo sdoppiamento si fonda. Ma c’è un altro punto di contatto forte tra i due registi: il credere fermamente alla necessità di un ‘pensiero’ sul mondo nel fare teatro, uno dei pochi luoghi in cui questo si può esprimere.
Entrambi praticano un teatro fatto di nuclei poetici e concettuali, così che il pensiero poetico diviene l’elemento più importante; e già immediatamente politico. Così si spiega, e si lega direttamente all’oggi, la scelta del venticinquesimo capitolo del Doctor Faustus, con la sua critica profonda della cultura, e la rivendicazione di un equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco. Per Mann l’incubo era il nazismo, oggi può essere un mondo assalito da un ritorno dell’irrazionale che prende corpo nelle fughe incontrollate di tipo ‘religioso’ come nella violenza che pare irrefrenabile nell’esistenza del singolo, nel divampare del neorazzismo, nelle guerre interetniche. In quel dialogo sulla musica tra Leverkühn e il Diavolo, Barberio e Braunschweig inseriscono altri testi, quasi piccole messinscene del Diavolo e dei suoi aiutanti, quasi il doppio dei protagonisti Faust e Mefistofele: a cominciare dai modelli classici di Marlowe e di Goethe, ma anche la Sirenetta di Andersen alle prese con la Strega, e i versi di Baudelaire sulla sifilide, e ancora Kafka. Un universo che si fa compatto e coerente attorno al grande tema della possibilità di uscire da sé. Questo reclama la parte ‘diabolica’ dello stesso Faust, il suo sdoppiamento. E a questo serve il mantello del diavolo che dà il titolo allo spettacolo. Può far uscire Faust sui mondi esterni rappresentati dai e sui monitor, mondi virtuali che spingono quella ‘uscita’, la confermano, la rendono vera e visibile, e nello stesso tempo immateriale e illusoria. Del resto quello stesso ‘mantello’, strumento di così grandi mirabilie, è anche un mantello da illusionista, da cabaret. Uno spettacolo classico, e che ancora consente al teatro di restare strumento e possibilità di lettura del mondo.
ALCUNI SNODI IMPORTANTI DI STORIE INCROCIATE…
di Stéphane Braunschweig
Nel maggio 1991, in occasione della seconda edizione del Maggio Teatrale di Digione, François Le Pillouer aveva riunito, fra gli altri spettacoli di sua programmazione, il mio allestimento dell’Aiace di Sofocle e la Descrizione di una battaglia di Giorgio Barberio Corsetti, tratto da Franz Kafka. Al di là delle differenze evidenti fra i nostri due lavori, alcune affinità sono immediatamente emerse, in particolare a livello scenografico: un muro (da sfasciare/da scavare) ne era il punto comune di partenza. Non era quello, comunque, il solo terreno di confluenza delle nostre storie, pure alle origini così distanti: da una parte un lavoro sul corpo simile alla danza, dall’altra un modo di lavorare al testo per così dire più classico. Ma tutti e due affermiamo una certa “musicalità” nel nostro rapporto con il tempo e con lo spazio, e altresì un legame essenziale tra la scrittura ed il corpo dell’attore (legame che trae forse la sua origine da La Colonia Penale di Franz Kafka).
Dopo Digione, altri incontri, che si sono verificati in occasione delle nostre rispettive creazioni, hanno alimentato un nuovo desiderio comune, quello di confrontare i nostri modi di lavorare e le nostre storie all’interno stesso di un’opera, e ci siamo così messi a considerare varie possibilità di collaborazione: Giorgio avrebbe potuto ad esempio ideare una scenografia per il mio successivo allestimento, mentre io avrei potuto collaborare accanto ad una équipe di attori francesi… fino a realizzare uno spettacolo a quattro mani. Il progetto intorno al Doctor Faustus rientra in tale logica come la prima pietra di questo edificio da innalzare, come un primo abbozzo, come un primo gioco. Ed a noi è sembrato naturale ritrovarci per questo a Digione.
Nello stesso tempo, noi abbiamo voluto che questo progetto fosse perfettamente equilibrato, che esso fosse veramente franco-italiano. Ecco perché abbiamo sollecitato l’appoggio di Romaeuropa. Ecco perché inoltre abbiamo voluto realizzarlo con due attori italiani e due attori francesi, un tecnico italiano ed un tecnico francese, e infine, a cavallo sulla linea di confine, un compositore italiano stabilito in Francia, Gualtiero Dazzi (del quale io spero per parte mia di allestire l’opera nel corso del 1994, anche in quel caso nel quadro di una co-produzione franco-italiana)…
Rassegna stampa
“Il patto tra i due registi non s’orchestra solo narrando una vicenda per lacerti, in prosa e in versi, tra il quotidiano e la leggenda, in un continuo sconfinamento tra diverse opere scritture. Il gioco degli echi tematici e formali include il controcanto del pianoforte – con le musiche di Gualtiero Dazzi – alla parola, e quello dell’azione riprodotta attraverso molteplici tecniche alle immagini in diretta; ed ecco le ombre cinesi, l’uso di un telo come schermo da cinema, ecco un paesaggio di monitor dove altri attori spiano quelli che stanno recitando e gli stessi personaggi possono trovare rifugio. Se due sono i protagonisti, Faust e Mefistofele, un altro uomo e un altro diavolo spesso li guardano da un’altra dimensione, intersecando con loro i propri dialoghi in una diversa lingua o comunque con accento straniero. Il procedimento non è solo formale: infatti la creazione di una realtà virtuale da contrapporre a quella effettiva (e rispondente comunque a una finzione) può determinare un ulteriore sbocco dell’allarme di Mann per il superomismo e lo strapotere dell’irrazionale. Non a caso è la magia dell’artificio a incantare più delle parole con cui si fronteggiano Gabriele Benedetti e Roberto Rustioni; e nel dibattito s’incastonano preziosamente le visioni: i corpi frammentati delle riprese video di Fabio Iaquone o le apparizioni di Flore Lefebvre des Noëttes dietro il velo dello schermo, nell’acquario di sangue, con le forbici della strega, oppure nel vano di un monitor mancante nei panni di Margherita sedotta, a gambe in su, bionda immagine tizianesca, mentre ascoltiamo Il vampiro di Baudelaire”.
(Franco Quadri, La doppia vita di Faust, la Repubblica, 15 luglio 1993)
“Senso dell’arte e destino dell’artista tornano comunque al centro del Mantello del diavolo, con quell’interrogarsi tutto politico su “cos’è oggi l’arte”, sulla necessità cioè di confrontarsi con il presente che dagli orrori della guerra scatenata dal nazismo, in mezzo a cui scriveva Thomas Mann, rimanda a un presente altrettanto pieno di violenze e intolleranze. Ma i tempi del demonismo e della malattia creatrice come controparte romantica della genialità sembrano oggi lontani. La querelle fra razionalità e irrazionalità, o peggio fra tradizione e rivolgimento, superata dalla consapevole necessità di un’arte che sia conoscenza. Sarà per questo che non si riesce a prendere troppo sul serio questo diavolo telematico, il cui corpo appare smembrato su diversi monitor e che gli attori si impegnano a ricomporre”.
(Gianni Manzella, Faust nell’inferno tecnologico, Il Manifesto, 15 luglio 1993)
“Ed è un “colpo di teatro” quello che accende lo spettacolo nel momento in cui Leverkühn, paralizzato davanti al suo pianoforte, febbricitante per la sifilide e attirato nel gorgo seduttivo di Mefisto, accetta la sfida verso il cammino dell’onnipotenza. Il fondale si solleva ed ecco il disvelamento della creazione, la conoscenza del mistero, l’iniziazione a cui noi tutti veniamo sottoposti, allargando il contagio della maledizione all’intero pubblico. Ecco un’impalcatura con due giovani che lasciano cadere la neve-coriandolo, ecco la panca dove scorrono gli attori che abbiamo visto sezionati nei video, il mare sanguinante della Sirenetta che ha perduto la voce, le telecamere e la candela delle ombre cinesi”.
(Stefania Chinzari, Mephisto e Faust tentazioni a suon di video, l’Unità, 16 luglio 1993)
“Se Mann pensava a Schönberg, alla dodecafonia, sviluppando poi il romanzo in chiave di denuncia del nazismo, i due registi si limitano a cogliere il simbolo del mantello, operando sulla dialettica dello scambio dialogico per poi suggerire una ironica approssimazione del patto e dell’arrivo di Faust in una sorta di laboratorio chimico – genetico – artistico del futuro, in cui il trucco è smontato e indicato a vista”.
(Ubaldo Soddu, Tra vecchi malefici e miracoli moderni, Il Messaggero, 18 luglio 1993)
“Raccontando una storia esemplare, nota a tutti, quella dell’ambiguo e complice rapporto tra Faust e Mephisto, i due registi vogliono opporre “alla razionalità che dispera, l’irrazionale che dà a sperare, alla maniera dei media, nella negazione del reale”. […] Mediante un set di telecamere nascoste dietro il fondale, le immagini degli attori sono riprodotte sui video in diretta. I personaggi passano da un televisore all’altro messi affiancati, senza soluzione di continuità e in tempo reale. Il gioco è affascinante e ironico. Può anche essere interpretato come un modo di piegare la televisione, nemica giurata del teatro, alle leggi del palcoscenico, usandola come strumento per scrivere una drammaturgia fantastica”.
(Emilia Costantini, Faust e Mephisto sono duellanti in tv, Corriere della Sera, 18 luglio 1993)
“I due registi hanno avuto modo di esplorare i rispettivi mondi artistici in una omogenea e compatta interazione, fino a raggiungere una unità stilistica veramente inaspettata. Il lavoro sugli attori – soprattutto – ci è parso di grande impatto; si è sviluppato nel più grande rigore vocale e di movimento, eppure ha fatto rifulgere l’idea di un’innocenza vicina ad un’animalità dal candore antico. Questo nonostante l’uso di materiali molto moderni. […] Gabriele Benedetti (Leverkuhn – Faust) e Roberto Rustioni (Mefistofele)., asciutti ed estremamente incisivi, hanno ben disegnato il parallelismo che fondava il loro rapporto di reciprocità, evidenziando con misura la fredda disperazione determinata dal continuo tentativo d’incontro e dalla conseguente certezza della impossibilità di consumarlo. Una lotta titanica, quindi, mentalmente proiettata al di fuori di sé in una scena che, alla fine svela le sue interiora, contravvenendo al tacito patto col pubblico tra realtà e finzione”.
(Giorgio Serafini, Faust o la scoperta di se stesso, Il Tempo, 22 luglio 1993)
VIDEO E PALCOSCENICO
di Giorgio Barberio Corsetti
Gli spettacoli realizzati con Studio Azzurro (Prologo, Segno bianco, Camera astratta) assumevano il video come punto di partenza e di arrivo, lo utilizzavano come elemento portante del linguaggio e ne analizzavano le possibilità, i limiti, ne facevano derivare le fantasie e le visioni che si riversavano sulla scena. Attraverso un set di telecamere nascoste dietro il fondale le immagini passavano sul palco in diretta, ed i monitor venivano utilizzati come finestre su uno spazio “altro”, i limiti dell’inquadratura venivano rotti attraverso il movimento dei televisori o dal passaggio delle immagini da un televisore all’altro senza soluzione di continuità. Si può dire che lo spazio, di volta in volta metaforico e visionario, immateriale e mentale del video, diveniva in quei lavori la drammaturgia stessa dello spettacolo.
Successivamente il mio interesse si è spostato sempre di più verso l’individuazione di un nucleo di senso per gli spettacoli “fuori” dal Teatro, vale a dire dentro il “mondo”, un referente esterno al linguaggio teatrale che parlasse del “mondo”, e dentro il “mondo” si potesse leggere la nostra contemporaneità. Quindi la “contemporaneità” non più come linguaggio che si riflette e si evolve, ma come “essere nel mondo”. Di qui la trilogia su Kafka, in cui del resto non utilizzavo video, ma solo qualche immagine filmata. Il corpo delle opere di Kafka diventava il corpo degli spettacoli, l’universo, il mondo a cui essi si riferivano.
In seguito i video sono tornati sulla scena dei miei spettacoli (Il legno dei violini, America) e questa volta come linguaggio acquisito, elementi di un linguaggio teatrale nuovo da articolare di volta in volta a seconda delle necessità del palcoscenico, del racconto e della drammaturgia. Da questi primi tentativi il video si fa parola di un linguaggio articolato complesso, che nel Mantello del Diavolo trova un primo risultato compiuto.
Nell’andamento di uno spettacolo, nel suo dipanarsi luminoso ed opaco, il video appartiene senz’altro al mondo della luce, e la proiezione (film o videoproiezione) a quello delle ombre.
È una fonte di luce e di ombre che ha un forte valore concettuale, valore che si sprigiona se crea una interazione concreta con la scena. Non può avere un valore decorativo o di sfondo, a quel punto si perde nel vuoto di senso e restituisce solo il frastuono dell’universo dei media. Interazione significa che il video diventa una parola del linguaggio poetico della scena. Entra nel flusso di produzione poetica, che è fatta di tutti gli altri elementi tenuti insieme dalla tensione degli attori, e si stacca, si isola come parola per risuonare con tutto il resto. Non descrive, non introduce fondali o paesaggi, non crea illusione, ma dà un elemento semplice e significativo. Se si pensa ad uno spettacolo come ad un testo poetico articolato, il video può corrispondere a dei sostantivi, o verbi sostantivati. Elementi naturali, oggetti, azioni semplici, apparendo in immagine, diventando “corpi luminosi” nel video, alludono al “genere” e all'”essenza”. Per esempio il fuoco, l’acqua, il camminare, il correre, ecc. Con il video si ha la possibilità di isolare e dare corpo ad un elemento. Così si agisce in due direzioni: sul palcoscenico si rende evidente un termine che diventa immagine ed esprime un concetto al di là delle parole parlate, nel video, nell’immagine si ritrova il potere simbolico, le si circonda di mistero ed evocazione aboliti dalle enunciazioni letterali dei media. Si rompono così le cerniere di un linguaggio video legato alla televisione, chiuso, sincopato e soffocante.
Ancora una volta, come sempre deve essere nel teatro, anche attraverso il video si evoca quel che non si può vedere, si mostra solo una piccola parte di ciò che si vuol lasciare intendere.
Con il monitor così luminoso si può richiamare senza esaurirlo un “aldilà”, un “oltre”, un “fuori”; si può alludere al reale, alla materia, al concreto, senza perdere la capacità di astrazione e di essenzialità che è propria del teatro.