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Teatro Sistina
dal 2 al 4 luglio 1997
25romaeuropa.net

Ballet Cristina Hoyos

Arsa y toma


Coreografia Cristina Hoyos, Monolo Marín
Ensemble Ballet Cristina Hoyos
Direzione artistica Ramón Oller, Cristina Hoyos
Direzione generale Cristina Hoyos
Musica Paco Arriaga
Scenografia Daniel Bianco
Costumi Christian Lacroix, Philippe Binot (assistente)
Costruzione scenografie Odeón Decorados
Sartoria Justo Salao, Sastreria González, Camiserie Parra
Calzature Gallardo
Addetta alla vestizione Juana Rincón
Danzatori Cristina Hoyos, Manuela Ríos, Ana Romero, Carmen Torres, Mónica Sánchez, Juan Ogalla, El Junco, Jesús Aguilera, Francisco Martín, Juan Antonio Jiménez
Cantanti José Mendez, Rafael de Utrera, David Lagos
Musicisti Paco Arriaga (chitarra), José-Luis Rodrigez (chitarra), Manuel Pérez (chitarra)
Produzione Trajana Producciones (Sevilla)
Direzione di produzione Tina Panadero
Assistenti Rafael Diaz, Mercedes Diaz

Arsa y Toma di Cristina Hoyos, già ospite nel 1990 con Sueños Flamencos, è il quarto lavoro firmato in proprio dopo la separazione da Antonio Gades.
Lo spettacolo intende ripercorrere la storia stessa del flamenco dagli anni Sessanta ad oggi, ossia da un’epoca in cui la celebre danza andalusa era diventata soprattutto un compendio di cliché ad uso e consumo dei turisti, a quando, proprio grazie ad artisti di genio come Gades, le è stato restituito il suo rigore gestuale ed il suo senso più profondo. Non a caso, a far da cesura all’esibizione è l’assolo della Hoyos nella Farruca centrale, che introduce la rinascita del flamenco vero e proprio e anticipa il gran finale della Solea por Bulerias, in cui va in scena l’intera compagnia.
Forte del sostegno di Monolo Marín e Ramón Oller nella coreografia e nella direzione artistica, che conferiscono all’opera della Hoyos un impianto teatrale di più ampio respiro, Arsa y Toma si giova anche dei costumi del francese Christian Lacroix, che accende ironicamente di colori sgargianti i brani del flamenco più folcloristico.

CRISTINA HOYOS SU ARSA Y TOMA
di Cristina Hoyos

Quando si è percorso un lungo cammino, risulta difficile non cadere nella tentazione di guardare
indietro. Ripensando ai miei inizi, dove il senso della mia ricerca non si è perso malgrado l’inesperienza, ho potuto scoprire che la nozione di essenza era divenuta confusa, si era diluita tra volants, un certo gusto del melodramma e ornamenti superflui.
Adesso, partendo dalla nostalgia, dal ricordo e dall’humour – spesso la sfumatura meno conosciuta di questo genere -, ho deciso di ritornare indietro senza rinnegare niente ma con il sorriso verso ciò che oggi – da alcuni anni solamente – sembra così lontano, anche se ciò sussiste ancora per coloro che non conoscono la sua autenticità. Questo è il risultato di una riflessione sul ritmo vertiginoso nel quale si immerge la danza flamenca, che mi ha portato alla convinzione che le sue possibilità sono infinite e che, per la sua inevitabile evoluzione, essa non ha bisogno di ornamenti e di artifici. Non c’è nient’altro che la profondità della sua espressione. Ecco ciò che rinnova, ogni giorno, la mia emozione di aver fatto del flamenco la mia vita.

PICCOLO LESSICO DEL FLAMENCO

Alegría
Forma musicale di Cadice. Cante per le feste. Ballo difficile da interpretare, pur essendo eseguito da entrambe i sessi, è particolarmente indicato per la donna

Baile / Bailaor(a)
Danza / Danzatore di flamenco (in lingua andalusa).

Braceo
Portamento di braccia dei danzatori di flamenco.

Bulería
La forma musicale più complessa del flamenco, da un punto di vista ritmico.

Caña
Canto duro, forte e pieno di melismi.

Cante / Cantaor(a)
Canto da cui si è sviluppato il flamenco, attraverso il cante è possibile distinguere le varie modalità e gli stili che lo compongono / Cantante di flamenco (in lingua andalusa).

Chico
Piccolo, leggero.

Duende
Dal sanscrito, divinità. Stato di grazia, fremito estatico comunicato da certi artisti che ne possiedono il dono. Essenza stessa del flamenco.

Fandango
Forma musicale ampiamente diffusa in tutta la Spagna, secoli prima della comparsa del flamenco. È un cante dalle molte varianti.

Farruca
Danza dell’inizio del secolo. La versione flamenca è nata nel 1906 dall’associazione del danzatore Faico de Triana e del chitarrista Ramon Montoya che modificarono il ritmo e ne fecero una variante del tango flamenco. Lo rinnovarono nella stessa maniera nel garrotin.

Garrotín
Cante con il ritmo di tango, non di origine andalusa, ma sturiana. Molto popolare all’inizio del Novecento.

Jaleo
Incoraggiamento gridato al momento giusto che serve da sostegno agli artisti.

Jondo
Il significato esatto della parola jondo rimane un po’ ambiguo: si tratta infatti sia di una deformazione del termine hondo, che significa profondo, sia di una contrazione del vocabolo ebraico Jom Tod (giorno di gioia dedicato a Dio). Le due etimologie sono ugualmente soddisfacenti dato che evocano i sentimenti d’intensità e di interiorizzazione che distinguono i canti jondo dagli altri (i canti chicos).

Jota
Danza dell’Aragona (v. fandango).

Juerga
Festa flamenca accompagnata da canti, danze e vino.

Malagueña
Cante de levante, derivato da un antico fandango di Malaga. Non è un cante per il baile.

Manton
Grande scialle frangiato di seta indispensabile ai costumi dei ballerini. Altri accessori il ventaglio (habanico), i fiori nei capelli (di solito di carta), il vestito con strascico (bata de cola) per gli spettacoli. Le nacchere (castañuelas) non fanno propriamente parte del flamenco, provengono dal folklore e dalla danza classica spagnola.

Marcar
Danzare senza il zapateado.

Martinete
La sua origine è nella fucina del fabbro: il martinete è infatti il martello. Cante, senza accompagnamento.

Morisques
Musulmani convertiti al Cristianesimo, dopo la riconquista. Furono espulsi nel XVI e XVIII sec.

Palmas
Battito ritmico delle mani a tempo o in contrattempo destinato ad accompagnare il canto, la danza o semplicemente la chitarra.

Pitos
Battito delle dita per marcare il ritmo.

Polo
Canto musicalmente vicino alla caña. Dibattuta la sua origine.

Rondeña
Forma della città di Ronda (Malaga), derivante dal fandango e privo di compás.

Rumba
Forma di flamenco originaria di Cuba.

Serrana
Siguiriya nel tono del mi che comporta una modulazione tonale in do maggiore: vigoroso e solenne, la sua esecuzione richiede grandi doti fisiche.

Siguiriya
Chiamata anche Seguidilla, dalla forma modale che viene suonata sul tono del la. È un cante drammatico che prevede l’accompagnamento della chitarra.

Solea / Soleares
Forma madre del cante flamenco. / Plurale di solea. Le due parole si utilizzano per designare uno stesso pezzo. Singolare e plurale non hanno nessuna importanza nel flamenco.

Tablao
Cabaret flamenco munito di una pedana di legno (tablas) per il zapateado.

Taconeo
Colpo ritmico battuto con i talloni. Generalmente la punta della scarpa non si stacca dal suolo.

Tango
In origine tamburo dell’Isola di Hierro (Canarie). Secondo alcune fonti avrebbe dato origine ai tanghi brasiliani, cubani, flamenchi e del Rio della Plata.

Taranta
Forma madre dei canti di miniera e del Levante andaluso. L’origine è nella città di Almeria.
Di ritmo libero. Nei suoi testi si descrivono le difficoltà della vita quotidiana.

Taranto
Forma della città di Almeria. Cante simile alla taranta, da cui si distingue perché l’accompagnamento della chitarra segue il compás.

Tiento
Sorta di tango rallentato.

Toña
Da tonada che indica tutta la canzone popolare spagnola; ma la toná andalusa è probabilmente nata dalle canzoni delle tonadillas. Se ne conoscono più di trenta versioni differenti.

Tonadilla
Comédie lyrique molto in voga durante il XVIII secolo.

Zambra
Gruppi di musicisti e cantanti dell’Andalusia del sec. XVI. Oggi forma flamenca – insieme di tre balli di carattere mimico connessi a tre momenti di un matrimonio gitano – in via di estinzione.

Zapateado
Baile molto antico, danzato principalmente da uomini. Forma di percussione con i piedi costituita dall’alternarsi di colpi ritmici di tacco e punta.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

ARSA Y TOMA
di Vittoria Ottolenghi

“Arsa y Toma” è un grido di incoraggiamento, di supporto e di festosa partecipazione, che si usa tradizionalmente con gli artisti di flamenco. È intraducibile, ci dicono, almeno alla lettera: si può tutt’al più assimilare al più consueto, spagnolesco “Olé” e alle nostre formule “Dài!” o “Avanti tutta!”. Comunque, è questo anche l’augurio cordiale e affettuoso di tutti noi, che conosciamo, amiamo e stimiamo Cristina Hoyos, da venticinque anni, per questo nuovo spettacolo, creato, con la sua Compagnia, il 20 ottobre scorso all’Opéra di Avignone. È il quarto, dal 1989, anno di fondazione della Compagnia, dopo Sueños Flamencos del 1990, Yerma del 1992 e Caminos Andaluces del 1994.

Non eravamo molti a credere davvero nel suo successo da sola, e cioè senza il grande Antonio Gades, con cui aveva cominciato a lavorare nel 1969, quando si incontrarono alla Fiera Mondiale di New York e con cui aveva continuato a danzare e a maturare, salvo rare interruzioni, fino al 1989. Ci deve essere voluto un coraggio da leone a staccarsi dal suo Maestro di tecnica, di stile, di gusto: e, insieme, dal Coreografo che, per lei e con lei, aveva creato tanti spettacoli bellissimi e un autentico capolavoro, Nozze di Sangue, da García Lorca, andato in scena per la prima volta a Roma, all’Accademia Filarmonica Romana, nel 1974. Qui, proprio quella magica sera (anche dopo i commenti entusiastici su di lei, che ci fece lo stesso Gades, dopo lo spettacolo) ci rendemmo conto che quella giovane donna, così seria, così concentrata, così semplice e dimessa fuori scena, era però capace di diventare, oltre che nobile, prestigiosa ed altera – come l’eredità della danza flamenca insegna ed esige – anche bellissima e carica di una strana sensualità, tutta interiore. Abbiamo assistito, di fronte al suo personaggio – la Novia, la Promessa Sposa – ad una sorta di arcana trasfigurazione teatrale, che l’ha subito immessa nella categoria delle grandi dive spagnole: quelle che l’avevano precedute molti anni prima – come Pilar Lopez – o affiancata, più di recente – come Manuela Vergas.

Cristina Hoyos, così come Gades l’aveva intuita e promossa in Bodas de Sangre, era, dunque, una danzatrice tecnicamente formidabile, ma anche una grande interprete, capace – con un solo gesto del braccio portato in alto, fino a coprire i neri occhi infuocati – di evocare la passione repressa, l’orrore di sé, l’eroica determinazione a rischiare la vita per il suo amore e per la sua libertà.
Che cosa ha imparato, di specialmente prezioso, da Antonio Gades, Cristina Hoyos? E che cosa, poi, ha messo a frutto, lungo il suo proprio cammino di animatrice, coreografa e direttrice artistica? Più delle preoccupazioni politiche e culturali, che sempre di più pervadono l’opera di Antonio Gades, Cristina Hoyos sembra aver presente, piuttosto, il suo primo genere di spettacolo flamenco, quello tradizionalmente antologico: infatti, a parte Yerma, che fu ospitato anche nella sede spagnola forse più prestigiosa – il Teatro madrileno della Zarzuela (e che, ohimé, ci è sfuggito) – gli altri tre spettacoli sono per molti versi assimilabili a quelli del primo Gades, e cioè a quelli non-narrativi.
Cristina Hoyos, artista compiuta e autonoma, si pose, fin dall’inizio – con Sueños Flamencos, che debuttò all’Opéra di Parigi – come una vera maestra nell’arte di creare spettacoli di flamenco trascinanti, certo, e pieni di fuoco interiore, specie nelle Alegrias e Bulerias di gruppo; ma anche inquietanti e duri, nei brani più interiorizzati, come era il lamento di apertura – una Siguiriya per se stessa e tre uomini – e il suo assolo Pasión, un taranto di straordinaria potenza. Ma quello che soprattutto piacque al pubblico italiano e lo convinse, fu il suo rifiuto di ogni facile atmosfera vistosa, commerciale, corriva, e il suo continuo ricercare un flamenco di gran classe, che non trova le sue armi prevalenti nei fumoni, negli ancheggiamenti, negli sguardi assassini, nei falpalà.
Il secondo spettacolo, dello stesso genere – Caminos Andaluces, creato al Théâtre du Châtelet di Parigi – era quasi una sorta di manifesto di questa sua aurea misura e della sua vocazione alla massima sobrietà, ai toni attenuati, grigi o marroni, alla coreografia salda e insieme lieve, trasparente. I colori e i materiali erano poveri all’apparenza e invece studiati e costruiti, con immenso dispendio di idee e di sapienza teatrale. Anche qui, uno dei momenti più alti era una danza creata per se stessa e quattro uomini (Tangos).

Da quanto abbiamo letto e ci ha detto la stessa Cristina Hoyos, Arsa y Toma è qualcosa di molto diverso. Intanto, Ramón Oller condivide la sua direzione artistica e Manolo Marin la responsabilità della coreografia: il che dà all’intera produzione un nuovo, robusto profumo di ampia e varia teatralità. Poi, c’è tutta una prima parte, che, in un clima di devota nostalgia e affettuosa ironia, ricorda (in pratica re-inventa) tutto ciò che incantava e faceva anche un po’ sorridere, nel meraviglioso mondo del flamenco per i turisti negli anni Cinquanta e Sessanta. Un mondo che la Hoyos bambina ben conosceva, perché era il mondo di sua madre, eccellente danzatrice, a Siviglia, in spettacoli in cui la vena profondamente amara del flamenco non emergeva che raramente – in uno sguardo, magari, o in un guizzo, tra i fremiti dei volants e dei tacchi rossi. È questa prima parte, in qualche modo, un cabaret della mente, un “come eravamo” a tinte forti, esuberanti, inconsuete nel repertorio Hoyos. Ma proprio questa introduzione colorita, a cui i costumi del francese Christian Lacroix (rosa intenso, verde mela e azzurro elettrico) danno uno splendore specialissimo, serve a esaltare il contrasto con l’oscurità, il fuoco improvviso, il mistero, nell’assolo centrale di Cristina Hoyos. Da allora in poi, ecco che ritorna, nello spettacolo, il grande flamenco, rigoroso, intenso, inimitabile – senza mai un istante di noia, senza un errore nel ritmo incessante. Tra i tre grandi chitarristi, che insieme con i tre cantaores, fanno da supporto e da corona alla danza, c’è anche Paco Arriaga, che ha firmato la musica originale dell’intero spettacolo.

Cristina Hoyos – chiusa e altera, in scena, proprio come una regina – è, nella vita quotidiana, dolce, naturale, sempre pronta al sorriso. Ci piacciono l’una e l’altra. Forse il segreto del suo fascino – in palcoscenico e fuori – sta proprio nel farci percepire continuamente, nella regina, la vulnerabilità di ogni creatura umana; e, nella donna, radiosa di spontanea simpatia, il tocco regale del genio.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

Rassegna stampa

“Consolo ha definito la Hoyos “enduandata”. Il duende è il demone che ispira il ballerino per riuscire ad attrarre lo spettatore (dalla Noche oscura di Juan de la Cruz, a García Lorca che ne ha scritto addirittura un saggio). La Hoyos ancora una volta è apparsa padrona dei suoi mezzi, accanto ai suoi giovanissimi e bravissimi ballerini, chitarristi, cantanti nei bellissimi costumi di Christian Lacroix, in circa due ore di spettacolo, bevute tutte di un fiato, in una prima parte colorita e leggera e in una seconda cupa, severa, ricca di presagi e di un fato che pare leggersi, inciso, sul viso assorto, penetrante della Hoyos, lontana da ogni frivolezza o digressione per restituirci dolore e gioia dell’Andalusia di sempre, “simbolo e segno di salvezza”. Grazie a Romaeuropa!”.
(Alberto Testa, Cristina Hoyos, l’Andalusia e il sapore del flamenco, la Repubblica, 5 luglio 1997)

“Se qualcosa Cristina, la Regina del flamenco vero, autentico, voleva dimostrare oltre alla estrema vitalità ed attualità del flamenco, era forse la profonda barriera che separa lo spettacolo folklorico dallo spettacolo folkloristico. Il recupero della tradizione popolare è infatti essenziale soprattutto se si mantiene fedele alle radici, senza concessioni plateali alle mode dei tempi moderni. Il pubblico alla fine premia la Hoyos per la sua coerenza, il suo coraggio, la sua arte vera, radicata. Avverte in lei l’interprete di razza, il crisma di un carisma fuori dal comune, una pagina vivente di storia della danza del nostro tempo”.
(Lorenzo Tozzi, Nel cuore del flamenco, Il Tempo, 6 luglio 1997)

“Questi colori accesi hanno dato speciale splendore alle danze veloci e piccanti del cabaret, e hanno esaltato il contrasto con l’oscurità, il fuoco improvviso, il mistero dell’assolo di Cristina Hoyos, collocato proprio al centro dello spettacolo, come una sorta di poetico spartiacque. Da allora in poi, infatti, ritorna il grande flamenco, rigoroso, intenso. È il flamenco, un po’ cupo, di Cristina Hoyos, il punto d’arrivo della sua arte di danzatrice e di coreografa: senza mai un istante di volgarità, senza un errore nel ritmo, senza fronzoli, senza facili effetti di stucchevoli sensualità.
Proprio in questa seconda parte c’è il succo della lezione di Antonio Gades, suo vero ed unico maestro, accanto a cui è stata prima ballerina per quasi vent’anni. Ma c’è anche una dimensione del tutto originale e accattivante, nello spettacolo di Cristina Hoyos: la glorificazione del ruolo della donna, nel flamenco e oltre il flamenco. Seducente sì, ma soprattutto autonoma, forte e regale”.
(Vittoria Ottolenghi, Quel flamenco cupo e nostalgico, Il Mattino, 8 luglio 1997)

“Cristina Hoyos va al cuore del flamenco, ne coglie l’essenza, lo libera di volants, di orpelli che non fanno altro che appesantire l’anima di questa danza ardente e malinconica allo stesso tempo. La forma si modula quindi via via sull’essenza, sulla sua progressiva liberazione dalla materia per diventare pura, in un disgregarsi incessante di contorni. Al termine dello spettacolo c’è soltanto l’incisione perfetta dei passi, lo schioccare ritmato delle dita, la sinuosa ondulazione delle mani, il battere continuato dei tacchi. In linea con il voluto rifiuto di facili atmosfere, vistose e commerciali, e il suo ricercare un flamenco di classe che eviti di indulgere in ancheggiamenti eccessivi e tessuti vistosi, poveri in apparenza, in realtà sapientemente studiati nella loro semplicità”.
(Flavia Bruni, Un inno al grande flamenco, Secolo d’Italia, 8 luglio 1997)