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dal 9 ottobre al 3 dicembre 1997
25romaeuropa.net

Il Mito di Faust


Programma
il trillo del diavolo
Faust, la soglia
Faust servitore di due padroni
Voci viennesi per Goethe
Cantare Goethe
Un negromante a Parigi
Un organo contemporaneo
Pestalozza su Pousseur
Busoni e Schönberg
D’après Faust

Faust in scena – Faust non solo: Goethe ieri e oggi – Cantare Goethe: Faust & C. – Il Trillo del Diavolo – Faust servitore di due padroni – Faust, la soglia – Faust interattivo – Un negromante a Parigi – D’après Faust – Tra Faust e Faustus – Faust vs Mephisto – Faust nel cinema

Con l’obiettivo di definire l’uomo europeo in tutte le sue sfaccettature storiche e culturali, il Romaeuropa Festival affronta una lunga ricognizione attraverso quei miti letterari che hanno ispirato l’opera di innumerevoli artisti del vecchio continente, diventandone punti di riferimento imprescindibili: il 1997 è dunque l’anno di Faust, personaggio che si crede realmente esistito in Germania nel ‘500 e protagonista di quel Faustbuch uscito anonimo nel 1587, già ripreso da Marlowe cinque anni dopo ma assurto a simbolo universale soprattutto grazie al capolavoro di Goethe. Attraverso una serie di concerti dislocati nei maggiori istituti di cultura della capitale, il mito di Faust rivive nelle note di Beethoven, Schubert, Berlioz, Liszt, Wagner, Webern, Kurtág, ma anche come ispiratore di partiture contemporanee come quelle di Matthew Taylor o Francesconi, nonché di altre espressamente commissionate da Romaeuropa e affidate a Fedele, Eggert e Machuel: curato da Michele Dall’Ongaro, il programma traccia complessivamente una mappa esaustiva nel tempo e nello spazio, affiancando inoltre ai brani più classici alcune pagine più rare e curiose, dall’ispirazione “demoniaca” del violino di Dorota Anderszewska alla parodia di Hervé del Faust di Gounod, passando per i poco conosciuti lieder di Carl Loewe, che di Goethe fu amico.
A completamento dell’evento vanno ricordati inoltre una maratona radiofonica su Rai RadioTre, Faust in onda, che recupera tra gli altri un Faust teatrale di Strehler rappresentato nel 1953, ed un convegno internazionale di studi, Faust e la sua storia, curato da Marino Freschi, professore di letteratura tedesca all’Università di Roma.
Accanto al lungo ciclo di concerti e al convegno di studi internazionali, Romaeuropa propone anche una nutrita rassegna cinematografica dedicata al mito di Faust, in una carrellata di circa trenta titoli dall’epoca del muto ai nostri giorni proiettati all’Accademia di Francia (Sala Renoir), dal 18 al 28 novembre 1997. Ispiratrice instancabile della settima arte, questa figura centrale della cultura europea rivive nelle pellicole di Méliès, Porter e Cohl, fino a divenire protagonista di uno dei capolavori di Murnau, che per l’occasione sarà accompagnato dal vivo dal maestro Gianfranco Plenizio; seguono ovviamente alcuni classici come La bellezza del diavolo di Clair, Mephisto di Szabo, Il Settimo Sigillo di Bergman, ma il programma arriva ad includere anche produzioni recentissime, da L’arcano incantatore di Avati o I misteri del convento di De Oliveira a Lekee Faust, dell’animatore ceco Jan Svankmajer, la cui proiezione in anteprima italiana inaugura la rassegna.
Tra gli italiani sono da segnalare alcune versioni di taglio sperimentale come Mephisto Funk di Marco Poma o il femminista Faust/Fausta di Lina Mangiacapre, nonché la proiezione evento del Faust teatrale di Giorgio Strehler andato in scena nella stagione 1988/89.

Programma
il trillo del diavolo
Faust, la soglia
Faust servitore di due padroni
Voci viennesi per Goethe
Cantare Goethe
Un negromante a Parigi
Un organo contemporaneo
Pestalozza su Pousseur
Busoni e Schönberg
D’après Faust

BUSONI E SCHÖNBERG

Berlino 2/8/1909

Egregio sig. Schönberg,
ho ricevuto la Sua lettera in tempo per poterLe rispondere. Lo devo fare, perché sento di avere la coscienza pulita – ma anche una cattiva coscienza – nei Suoi confronti, e provo la necessità di renderglieLe note entrambe. Ho continuato a studiare i Suoi Pezzi, e quello in 12/8 mi attrae sempre di più. Credo di averlo afferrato in pieno; tanto più che coincide con alcune delle mie idee su quello che è il prossimo compito della musica. Ma se sono pienamente d’accordo con il contenuto, continuo a trovare insoddisfacente la forma pianistica in cui è espresso. Ancor sempre.
Che Ella mi ascriva a merito la mia franchezza o che mi giudichi di intelligenza limitata, fa lo stesso. Se Ella scrive il segno < > su accordi tenuti di quattro note – in un registro poco agevole – ciò indica un’intenzione che non è realizzata nella scrittura. Non è un pregiudizio di pianista ma un fatto inconfutabile. Ho esaminato il Suo bel lavoro da tutti i lati e in ogni particolare e, se tiene presente quanto sono occupato, ciò Le dimostrerà quanto mi stia a cuore e quanto interesse vi abbia dedicato. (A questo punto Ella avrebbe ragione di obiettare che è soltanto merito del Suo pezzo). Ad ogni modo – ecco la cattiva coscienza – mi sono talmente immedesimato nei Suoi pensieri da sentire il bisogno irresistibile di dare una sonorità, come la intendo io, alle Sue evidenti intenzioni. Quando Ella parla di “senso della sonorità nell’accezione usuale”, Ella vede in me quel che si chiama generalmente il virtuoso di pianoforte. E qui mi devo difendere per l’ennesima volta, perché ho piena coscienza di aver aggiunto qualche cosa al pianoforte, proprio un che di casto, di indefinito, di raffinato, la sonorità senza tecnica.
Per terminare la mia confessione, sappia che ho (immodestamente) reistrumentato il Suo pezzo. Quantunque resti un mio affare privato, non potevo tacerGlielo, anche se Ella dovesse andare in collera con me. Naturalmente ho gran desiderio di vedere i Pezzi seguenti e li aspetto con gioia.
Spero che Ella mi serberà la Sua fiducia nonostante tutto; sarei molto deluso del contrario.
Starò via solo 10 giorni, e dopo sarò di nuovo a Sua disposizione

Suo dev.mo
Ferruccio Busoni

(da una lettera di Ferruccio Busoni a Schönberg, in Ferruccio Busoni, Lettere, Ricordi/Unicopli/Le Sfere, cit. in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

CANTARE GOETHE
di Giorgia Caruso

Piace ai compositori Johann Wolfgang von Goethe per quel dono di dare alle creature il loro naturale respiro. E piace la ancestrale pena, quella Sehnsucht traslata da Ludwig van Beethoven, come da Carl Loewe e da Hugo Wolf nel Lied, espressione di cui Goethe – der Ausnahmendeutsche per Nietszche ed intellettuale borghese ma imperfetto perché rivoluzionario con il Wilhelm Meister – è, suo malgrado, icona.
Fedele al pregiudizio razionalistico di un dominio del logos sul suono (“se il linguaggio – scrive – non fosse incontestabilmente la cosa più alta che noi abbiamo, metterei la musica ancora al di sopra del linguaggio, insomma, in cima a tutto”), Goethe si preoccupa di concedere ai compositori limiti circoscritti per non alterare le suggestioni del testo. Smentendosi solo nella sacrale ma lucida devozione per l’eccezione mozartiana del Don Giovanni, l’intonazione assume i connotati di una elocuzione musicalmente amplificata del testo che conduce il poeta a negare tutta la produzione di Franz Schubert e a decidere di rifiutare a Beethoven – pur stimandone l’Egmont come manifestazione di un climax opportuno dentro il testo – un adattamento per musica del suo Faust, “la faccenda di tutta una vita”, determinato, appunto, a sottrarlo all'”impossibile connubio” – invece fortemente praticato – testo-musica/razionalità-irrazionalità.

Attraverso i quasi 100 Lieder, linguaggio che dismetterà nel 1820, Beethoven riesce tuttavia a traslare il concetto di cultura oltre i limiti della pura curiosità intellettuale universalizzandola e rivelando logica e morale kantiane nella discordia discors tra sentimento e ragione, tradotti costruttivamente nella forma-sonata.
Se Beethoven trasfigura l’idea individuale in universale, l’austriaco Wolf derivando innanzitutto l’incipit dalla personalità del poeta, predilige, in realtà, l’umorismo dei testi di Möricke, mentre nega, per primo, qualsiasi perbenistica Hausmusik, discostandosi esteticamente da quella ballata di consumo sociale fatta di una scrittura pianistica attenta, dalle forti mutuazioni di armonia, battuta, ritmo, tonalità, intrise di emotività e sentimentalismo talvolta Biedermeier del sassone Loewe.

Assurto con il nuovo secolo a ideale modulo di sperimentazione – si pensi a Anton von Webern – dentro la crisi della tonalità, il fondamento musicale del principio liederistico si sgretolerà inevitabilmente in forzata coincidenza con l’annullamento delle condizioni sociali di una musica borghese proprio a causa di quella contraddittoria iperemotiva “fallace attenzione per il particolare” presagita, suo malgrado, da Goethe.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

D’APRÈS FAUST
di Michele Dall’Ongaro

L’elenco dei musicisti che si sono ispirati al mito di Faust nelle loro opere è davvero denso di nomi. Oltre alle partiture più note (di Gounod, Berlioz, Boito, Mahler, ecc.) ci sono molti titoli che basterebbero per la stesura del programma di molti altri festival e rassegne. Ricordiamo solo i due cori di Furtwängler del 1904, le musiche di scena di Paul Dessau (1949-1953), la musica radiofonica Hélène et Faust di Jolivet (1958), le molte pagine dedicate alla notte di Valpurga
(tra cui quella – strepitosa – di Mendelssohn), le musiche di scena di Mascagni, le pagine corali di Schubert (meno note degli arcinoti Lieder), le Scene dal Faust di Schumann (1843-53) per soli coro e orchestra (di rara – quanto auspicabile – esecuzione), la cantata di Alfred Schnittke del 1982 poi trasformata nell’opera Histoire von D. Johann Fausten tratta da Spies e ancora Chor Gefangener Trojer per coro e orchestra di H. W. Henze (1948), per tacere delle centinaia di altre partiture di autori anche notissimi (come Wagner) che più di una volta si sono accostati al mito faustiano come ad una sorta di soglia magica, un confine iniziatico tra la propria arte ed una dannazione quasi cercata. Tra questi il più prolifico è probabilmente Liszt. Oltre alle opere presentate questa sera molte altre, ad iniziare dal Faust-Sinfonie, si ispirano non solo a Goethe ma anche ad altri autori come, ad esempio, Lenau. Pare che Liszt abbia scoperto il Faust di Goethe grazie a Berlioz nel 1827 nella traduzione di Gérard de Nerval che aveva appena fatto la sua apparizione in Francia. E infatti è all’amico che Berlioz dedica La Damnation de Faust di cui oggi si ascoltano due celebri pagine nella trascrizione lisztiana.

Si può dire che intorno a Faust (e il programma di questo concerto tende a dimostrarlo) Liszt tracci un percorso doppio. Da un lato il virtuosismo più appariscente, quasi spaccone, al quale Liszt affida il racconto di un demonismo iconografico e smagliante. Quel Male dal quale tutti vorremmo farci sedurre, qualora solo il Maligno volesse degnarci di qualche attenzione, in cambio di molto meno dell’Anima. Quasi in saldo, diciamo. Dall’altro, un sentiero molto diverso, di cui La Bagatelle sans tonalité (1885) è paradigma che ci conduce da Faust a Faustus (non a caso uno dei temi della nostra rassegna), alle soglie di un tragitto musicale di impressionante, presaga modernità. Tra queste due strade si colloca a perfezione la presenza di György Kurtág. Anche in questo brano (dedicato a Ferenc Farkas, compositore ungherese da noi un po’ trascurato) si riconosce l’abituale cifra del testo di Kurtág. Di nuovo la paziente, certosina compilazione di un repertorio di stracci, brani, segnali, fossili di una civiltà musicale tanto amata quanto compianta. Il tessuto ordito da Kurtág pullula di frammenti accatastati senza furia nichilista ma quasi con amore diremmo paterno. In questa curiosa sintesi tra Webern e Bartók (ma bisognerebbe anche citare Rilke ed altri) il compositore sembra obbligarci in uno strano viaggio nel tempo, nel nostro tempo interiore alla ricerca delle tessere di un mosaico che non sarà mai ricomposto.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

UN NEGROMANTE A PARIGI
di Michele Dall’Ongaro

Qualcuno ricorderà forse un vecchio, piccolo saggio di Isaac Asimov sulla morte. Cosa succede in quel breve attimo che segna il trapasso – si chiedeva lo scrittore -, dov’è la vita? Nel respiro? Nel sangue? Nell’anima? E via a discettare tra fisica e metafisica per trovare il luogo e la forma della vita. Con la musica è lo stesso: cos’è esattamente che ci stupisce, il bandolo della rivelazione, per così dire? Per esempio Berlioz. La chiave (una chiave) è il timbro. L’orchestra: vero laboratorio per soluzioni inedite che quasi guidano gli altri elementi della musica piegandoli al servizio di un’ingorda furia timbrica di dirompente vitalità. Ma come la versione per pianoforte a quattro mani del Sacre stravinskiano snuda l’impalcatura ritmica eccitandone la valenza strutturale, così altri elementi della drammaturgia musicale di Berlioz sono evidenziati dalla lettura cameristica di un vero colosso sonoro come, a giusto titolo, La Damnation de Faust può essere definito. Dunque l’armonia, innovativa e antiaccademica come Schumann ebbe a notare per primo, l’invenzione melodica, il rapporto con il testo e molto altro. Berlioz rimase fortemente suggestionato dalla lettura del Faust di Goethe e, nel 1829, compose le Huit scènes de Faust op. 1 nella versione francese di Gérard de Narval, ma nel 1845, insoddisfatto del lavoro, rielaborò i materiali realizzando La Damnation de Faust, leggenda drammatica in quattro parti e dieci quadri utilizzando, oltre al testo di de Narval, anche contributi propri e di Almire Gandonnière. Non essendo inizialmente dedicata alle scene La Damnation si snoda con una drammaturgia che trascura la consecutio logica degli eventi distanziandosi anche notevolmente dall’originale goethiano.
Basti a dimostrarlo il destino del protagonista e il trionfo del demoniaco che sottolineano la valenza romantica della leggenda medievale. La selezione proposta in questo programma rispetta la successione dei numeri presentati, evidenziando alcune delle caratteristiche dell’opera: la prevalenza del protagonista rispetto alla prima versione del 1829, l’ambigua personalità di Mefistofele in bilico tra Inferno e taverna, quasi un compagno di bisboccia, e l’acceso lirismo riservato a Margherita, unica figura alla quale Berlioz riserva la pietas e il melos.
Ben diversa la situazione con la novità di Machuel, per il quale la rivisitazione di Sanguineti del mito faustiano sembra particolarmente idonea. Coltivando in ambito colto la tradizione un po’ desueta dell’improvvisazione (ma sarebbe meglio parlare di composizione estemporanea), Machuel pare voler fondere nel gesto diverse istanze espressive maturate negli ambienti delle cosiddette neo-avanguardie. Da un lato un controllo diretto sul materiale (di cui, come autore-interprete si assume la piena, consapevole responsabilità), dall’altro l’apertura alla sorpresa, all’imprevisto e ancora lo stretto rapporto con l’interprete (in questo caso il cantante) e la necessità artistica di questo legame. Quattro compagni di strada (rapporto con il testo, controllo dei parametri, alea e sinergia, come si direbbe oggi) da sempre presenti nelle musiche del Novecento e non solo come filtri per l’invenzione musicale e amplificatori del pensiero.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

UN ORGANO CONTEMPORANEO PER TUTTE LE STAGIONI
di Lorenzo Tozzi

Strumento antico come pochi altri nella storia musicale europea, anzi a lungo strumento per antonomasia (organon), l’organo ha ricevuto in tempi recenti attenzioni inattese da parte di compositori contemporanei. Basterebbe per tutti il nome di Olivier Messiaen, grande organista, compositore caposcuola e maestro del mitico Pierre Boulez.

Due eloquenti esempi di splendida sopravvivenza contemporanea della creatività organistica vengono da due compositori di diversa estrazione e generazione come Petr Eben, cecoslovacco, e Ivan Fedele, leccese. Particolarmente impegnativa l’opera di Eben, nato nel 1929 e formatosi dopo la guerra (e dopo l’internamento di Buchenwald) all’Accademia di musica di Praga. Pianista ed apprezzato improvvisatore, Eben conferisce all’antico strumento un ruolo nodale nella sua opera: il suo vasto catalogo comprendente infatti l’oratorio in lingua greca Apologia di Socrate, musica sacra (Messe, Vespri e canti liturgici), cantate, concerti per vari strumenti (tra cui la Symphonia gregoriana per organo del 1954), molta musica da camera e pianistica (con particolare riguardo alla musica per l’infanzia), musica corale e soprattutto organistica (Laudes, Fantasie corali, una partita).

Un discorso a parte merita la musica di scena per il Faust di Goethe commissionatagli dal Burgtheater di Vienna nel 1976, in cui all’organo è riservato un ruolo dominante come elemento capace di ritrarre coloristicamente l’eterno dissidio tra il bene ed il male attraverso due opposti registri espressivi dello strumento: quello aulico della grande tradizione e quello leggero e frivolo dell’organo da barberia. Questa idea fondamentale sopravvive nella riduzione della partitura per organo solo sfociando in una scrittura a tratti trasgressiva e provocatoria.
La successione dei nove movimenti (Prologo, Mysterium, Canto del mendicante, Coro di Pasqua, Canzone degli studenti, Margherita, Requiem, La notte di Walpurgis, Epilogo) segue pressappoco lo svolgimento dell’azione e si spinge alla evocazione di opposti mondi, dalla contemplazione celeste degli arcangeli (Prologo) al sabba stregonesco della Notte di Walpurgis, dalla gioia dei cori studenteschi che occhieggiano ad un accademismo bachiano alle tinte cupe, senza speranza e dense di aguzzi rimorsi, del Requiem per i funerali della madre e del fratello di Margherita.
Privato della scena, Faust diviene così una sorta di musica programmatica in nove movimenti preceduti da alcune righe tratte dalla scena corrispondente. Quasi occhieggiando a Liszt, Franck e Reger, la scrittura organistica vi si fa a tratti rigogliosa e complessa, non esente da esplosive miscele tra folclore, arcaiche modalità gregorianeggianti ed un carattere prevalentemente improvvisativo. Un ponte insomma tra passato e presente, tra tradizione e modernità.

Tratti non meno contemporanei riscontriamo in Preludi e toccate Diabulus in musica per organo del quarantaquattrenne leccese Ivan Fedele, formatosi musicalmente al Conservatorio Verdi di Milano con Bruno Canino (pianoforte) e con Azio Corghi (composizione) e perfezionatosi con Franco Donatoni nei corsi di composizione dell’Accademia di S. Cecilia. Dopo una giovanile carriera pianistica si dedica alla composizione e segnatamente alla ricerca elettro-acustica nonché all’insegnamento.
Scritto per l’organo di S. Maria della Grazia di Lecce, Preludi e toccate si articola in sei brevi sezioni per una durata complessiva di circa dieci minuti. Frequenti gli sbalzi di tempo e di temperatura che privilegiano ora una scrittura squillante ed energica, ora una fiorettatura virtuosistica, folate di note, veloci grappoli sonori, scontri dissonanti, poliritmie e una ricerca di esiti timbrici favorita da una registrazione ricca e rigogliosa (dettagliatamente prescritta nello spartito). Una fitta ragnatela di umori, variegata e immaginifica che aggiorna il più antico degli strumenti alla più contemporanea delle scritture.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

HENRI POUSSEUR
di Luigi Pestalozza

I pezzi del programma tratti da Votre Faust ci portano agli anni di questo esemplare lavoro teatrale di Henri Pousseur e dunque agli anni del grande dibattito sulle nuove forme musicali, in particolare a quando nel 1958 – e quindi all’indomani della conferenza con cui a Darmstadt Pierre Boulez rompeva, in nome dell’alea controllata, con lo strutturalismo – Henri Pousseur, che pure
della serializzazione integrale era stato uno dei massimi teorici, proponeva a sua volta l’uscita dall’ortodossia strutturalista, ovvero scriveva Mobile pour deux pianos, un pezzo che assumeva la poetica dell’opera aperta – elaborata intanto da Umberto Eco – che affidava ai due esecutori il compito di dare definitiva forma musicale ai materiali approntatigli dal compositore.
Mobile pour deux pianos fu anche il pezzo che Michel Butor accostò subito ai Mobiles di Calder, e che proprio perciò lo dispose con tanto maggiore entusiasmo a collaborare con Pousseur a un teatro musicale improntato alla massima mobilità formale. Nasce così, fra il 1960 e il 1966, Votre Faust, l’opera di Pousseur in realtà perfettamente aperta proprio perché basata sul testo di Butor che, per una musica altrettanto formalmente libera, si dispone con essa a diversi finali, se diverse sono le soluzioni della storia di Faust offerte allo spettatore, perché sia lui a decidere come concluderla.
In prima assoluta alla Piccola Scala di Milano nel 1969, Votre Faust è stata una tappa importante del passaggio post-strutturalista al molteplice musicale, o a quell’aprirsi della ricerca stessa di una nuova musica alla molteplicità dei linguaggi, alla pluralità delle tecniche, all’interrelazione fra i generi, insomma a un comportamento compositivo ma anche esecutivo non più vincolato a un’unica regola. Per cui si capisce che un brano come Miroir de votre Faust: Le chevauchée fantastique sia per pianoforte e soprano ad libitum, che vuol dire autonoma esistenza musicale delle due parti del soprano e del pianoforte, salvo la possibilità di suonarle insieme (ecco la loro apertura) se così si decide. Ma poi questo Miroir de votre Faust e quello che segue, Souvenir d’une marionette per pianoforte solo, sono a loro volta scanditi, all’interno dei sette pezzi di Echoes de votre Faust, secondo un ordine scelto a piacere dallo stesso Pousseur, e però in modo da far capire che altra poteva essere la successione dei pezzi in realtà aperti alle più varie combinazioni: chi ascolta si rende conto di potere egli stesso immaginare altri percorsi, altri montaggi, o insomma di essere egli stesso parte di quella apertura formale che all’origine governa il Votre Faust, dai cui materiali discendono dunque non a caso i brani di questo concerto. Brani che dunque ci riportano davvero al tempo della teoria e della pratica pousseriana dell’opera aperta, ma infine per farci capire come ad aprirsi allora fu in realtà l’idea e la prassi della musica, e della sua storia, come libero montaggio di percorsi scelti fuori ogni ordine obbligato.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

PROGRAMMA

FAUST IN SCENA
Musica Ivan Fedele (Preludi e toccate Diabulus in musica), Petr Eben (Musiche di scena per il Faust di Goethe)
Interpreti Alberto Pavoni (organo)
Produzione Preludi e toccate Diabulus in musica è commissionato dal Romaeuropa Festival
Durata 50 minuti
Auditorium del Pontificio Istituto di Musica Sacra, 9 ottobre 1997

FAUST NON SOLO: GOETHE IERI E OGGI
Musica Franz Schubert (Geistergruss op.92 n.3, Schäfers Klagelied op.3 n.1, Der Musensohn op.92 n.1, Der Koenig in Thule, op.5 n.5, Szene aus Faust, S.N. LFG.20, Gretchen am Spinnrade op.2), Anton Webern (Otto lieder giovanili: Tief Von Fern, Aufblick, Blumengruss, Bild der Liebe, Sommerabend, Heiter, Der Tod, Heimgang in der Fruehe; Quattro Lieder op.12: Der Tag ist vergangen, Die geheimnisvolle Flöte, Schien mir’s als ich sah die Sonne, Gleich und gleich), Franz Schubert (Meeres Stille op.3 n.2, Nachtgesang S.N. LFG 47, Gretchens Bitte S.N. LFG 29, An den Mond S.N. LFG 47, Trost in Tränen S.N. LFG 25, Rastlose Liebe op.5 n.1)
Interpreti Antonio Ballista (pianoforte), Luisa Castellani (soprano)
Durata 60 minuti
Istituto Austriaco di Cultura, 13 ottobre 1997

CANTARE GOETHE: FAUST & C.
Musica Ludwig Van Beethoven (Cinque Lieder su poesie di Goethe: Mailied op. 52, Wonne der Wehmut op.83, Sehnsucht op. 83, Mit einem gemalten Band op. 83, Mephistos Flohlied op. 75), Carl Friedrich Zelter (Der König in Thule, Ruhe “Über Allen Gipfeln ist Ruth”, Wanderers Nachtlied “Der Du von dem Himmel bist”), Carl Loewe (Erlkönig), M. Eggert (Das Ewig Weibliche zieth mich hinan), Hugo Wolf (Gretchen an der Mater dolorosa, Anakreons Grab, Der Rattenfanger), Franz Schubert (Der König in Thule, Ganymed, Schäfers Klagelied, Heidenröslein, Wanderers Nachtlied, “Über Allen Gipfeln ist Ruth”, Erlkönig)
Interpreti Leonardo De Lisi (tenore), Vito Maggiolino (pianoforte)
Produzione Das Ewig Weibliche zieth mich hinan è commissionato dal Romaeuropa Festival
Durata 60 minuti
Goethe Institut Rom, 14 ottobre 1997

IL TRILLO DEL DIAVOLO
Musica Henryk Wieniawski (Fantasia brillante in la minore sui temi di Faust di Gounod), Leon Janánek (Sonata per violino e pianoforte), Sergej Prokof’ev (Sonata per violino e pianoforte in fa minore op. 80)
Interpreti Piotr Anderszewski (pianoforte), Dorota Anderszewska (violino)
Durata 75 minuti
Istituto Polacco, 24 ottobre 1997

FAUST SERVITORE DI DUE PADRONI
Musica Hervé – Florimond Ronger (estratti da Le petit Faust), Charles Gounod (estratti dal Faust)
Interpreti Simona Baldolini (soprano), Amedeo Moretti (tenore), Riccardo Zanellato (basso), Andrea Certa (pianoforte)
Durata 60 minuti
Ambasciata di Francia, 27 ottobre 1997

FAUST, LA SOGLIA
Musica Franz Joseph Haydn (Quartetto op.76 n.3 Emperor), Matthew Taylor (Quartetto n. 3, dedicato al Quartetto Schidlof), Hugo Wolf (Quartetto in re minore per archi)
Ensemble Quartetto d’archi Schidlof
Interpreti Ofer Falk (violino), Rafael Todes (violino), Graham Oppenheimer (viola), Oleg Kaagan (violoncello)
Durata 75 minuti
British Council, 29 ottobre 1997

FAUST INTERATTIVO
Musica Henri Pousseur (Madrigal I (vers. A), Pour Baudelaire, Flexion I, Flexion V, Vers l’île du mont pourpre, Madrigal I (vers. B), Echos de votre Faust (7 pezzi per voce, flauto, violoncello e pianoforte), Trois visages de Liège I, II e III)
Ensemble Alter Ego Ensemble
Interpreti Luisa Castellani (voce), Manuel Zurria (flauto), Paolo Ravaglia (clarinetto), Francesco Dillon (violoncello), Oscar Pizzo (pianoforte)
Durata 70 minuti
Accademia del Belgio, 7 novembre 1997

UN NEGROMANTE A PARIGI
Musica Thierry Machuel (Creazione – Opera Nuova, Melodramma per baritono solo su testo di Edoardo Sanguineti), Hector Berlioz (estratti da La Damnation de Faust)
Interpreti Marina Comparato (mezzosoprano), Mario Leonardi (tenore), Enrico Marrucci (baritono), Andrea Certa (pianoforte)
Produzione Creazione – Opera Nuova è commissionato dal Romaeuropa Festival
Durata 70 minuti
Accademia di Francia, 14 novembre

D’APRÈS FAUST
Musica György Kurtág (dalla serie Giochi: Message for András Szöllösy, An Apocryphal Hymn by A. Schnittke, Doina, Furious Chorale, Hand in Hand), Franz Liszt (due episodi dal Faust di Lenau: Der nachtlichte Zug, Der Tanz in der Dorfschenke), György Kurtág (dalla serie Giochi: Hommage à Farkas Ferenc 90, All ongherese-Hommage à Gösta Neuwirth 60, Aus de Ferne IV-Hommage à Alfred Schlee 95), Franz Liszt (Mephisto polka), Hector Berlioz e Franz Liszt (Danse des Sylphes de la Damnation de Faust), Franz Liszt (Bagatelle sans tonalité – Mephisto Walse, Rákóczi March)
Interpreti Gábor Csalog (pianoforte), András Kemenes (pianoforte)
Durata 75 minuti
Accademia di Ungheria, 18 novembre 1997

TRA FAUST E FAUSTUS
Musica Arnold Schönberg (6 kleine Klavierstücke op. 19), Johann Sebastian Bach-Ferruccio Busoni (Kanonische Variationen und Fuge aus Musikalisches Opfer), Arnold Schönberg (Suite op. 25), György Ligeti (Etude n. 5 Arc-en-ciel), György Kurtág (dalla serie Giochi: Stop and go, Play with Infinits, Les Adieux in Janaceks Manier, Flood-Horns (Waiting for Noah), Quiet talk with the devil), Arnold Schönberg-Ferruccio Busoni (Klavierstück op. 11 n. 2), Ferruccio Busoni (Toccata)
Interpreti Gábor Csalog (pianoforte)
Durata 75 minuti
Accademia di Ungheria, 19 novembre 1997

FAUST VS MEPHISTO
Musica Ludwig Spohr (dal Faust: Liebe ist die zarte Blühte, Hier Süsse Neigung), Richard Wagner (Tre scene dalle Sette scene dal Faust di Goethe), Giuseppe Verdi (Deh pietosa, oh addolorata, su testo di Goethe), Luca Francesconi (Nacht), Ferruccio Busoni (Due arie dal Doktor Faust: Traum der Jugend, So sei das Werk vollendet), Modest Petrovic Mussorgskij (Pesnja o bloche, dal Faust di Goethe), Emmanuel Bondeville (Sérénade, estratto dalle Illustrations pour Faust), Arrigo Boito (dal Mefistofele: Ave Signor, perdona se il mio gergo…, Ecco il mondo)
Interpreti Roberto Abbondanza (baritono), Viviana Nardomarino (pianoforte)
Durata 70 minuti
Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, 20 novembre 1997

 

FAUST SERVITORE DI DUE PADRONI
di Mario Bortolotto

Il rapporto di dipendenza con il “Faust” della cultura francese rimonta agli anni stessi della sua pubblicazione parziale: Berlioz inviava all’Olimpico le Huit scènes de Faust, accompagnate da una lettera di estrema devozione; e, come già Schubert, senza ottenerne risposta. La strana vicenda continuò, fino a Mon Faust di Valéry e Votre Faust di Pousseur-Butor. Si tratta di colossali fraintendimenti, leggeri – Hervé -, semileggeri – Gounod -, o seriosi – Valéry naturalmente.

Il Faust gounodiano resta una tappa miliare, nella storia del teatro musicale di Francia: fondava, nientemeno, l’opéra lyrique: senza quel capostipite non avremmo né Massenet né Bizet. È un lavoro talmente paradigmatico da essere francamente esportabile, una merce che ogni mercato gradisce: Edith Wharton, in un suo bel romanzo, ci narra di un social climber newyorkese che corre al Metropolitan, per farsi notare dalla haute cui aspira con tutta l’anima, a vedere, appunto, la più celebre eroina della letteratura tedesca, tradotta in francese e cantata, in italiano, da un soprano svedese per un pubblico rigorosamente anglofono. Davanti a questi prodigi del kitsch, lo sdegno di Adorno ci sembra davvero fuori luogo: che c’entra Goethe? Del resto, in Germania l’opera fece furore; e, giustamente, ne fu mutato il titolo in Gretchen, che è la vera protagonista.
Secondo Gounod, e i suoi vicini, la storia di Faust è quella di un signore attempato, che ha una voglia pazza d’amore: baiser, baiser, encore et toujours! E così vende l’anima al diavolo, che è anche più di lui un relitto del Settecento glorioso: un diavolo che ha studiato su Diderot e Marivaux. Alla povera figliuola che gli dà retta, cosa può toccare se non danno e beffe? Così impara, avrebbero insegnato le signore alle figlie non incautamente portate all’Opéra. Nemmeno un’ombra del poema si ritrova nell’opera: per questo, ci pare anche più significativo il Petit Faust di Hervé, che a quel capolavoro domenicale rivolge, da birbo matricolato, affettuosi sberleffi. Stravinskij apprezzava, da par suo, il gentile collega. Purtroppo, si tratta di cose che hanno significato solo nel testo originale, come del resto avviene sempre per l’operetta, e affini: Offenbach, Sullivan, Strauss, Kálmán, Lehár (Ecco una ragione di più per imparare il francese!).

Piccolo o grande, Faust era diventato un pilastro dell’opera, non solo dell’Opéra: per insipide che siano le sue meditazioni, vi è un momento almeno, quando scende all’attacco (“Laisse ta main s’oublier dans la mienne”), in cui il musicista tocca il suo zenit, l’identità di erotico e sentimentale che fa stravincere il coq gaulois. Non è poco davvero.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

FAUST, LA SOGLIA
di Michele Dall’Ongaro

“… Sono una persona che in ogni cosa agisce solo d’impulso e quando una quantità sufficiente di elettricità si è accumulata in me, succede qualche cosa…”.
(Hugo Wolf a Joseph Schalk, Vienna, 8 settembre 1889)

Il brano propriamente faustiano del programma di oggi è il quartetto in re minore per archi di Hugo Wolf, che reca sul frontespizio autografo il motto “Entbehren sollst du, sollst entbehren” (Rinunciar devi, devi rinunciar) estrapolato dal Faust di Goethe, unica opera strumentale da camera di vaste dimensioni del compositore austriaco, all’epoca appena diciannovenne.
Decisamente poco nota e di rarissima esecuzione, la partitura merita certamente un’attenzione maggiore di quanto sino ad oggi gli sia stata dedicata da interpreti, pubblico e studiosi. Il quartetto fu composto nell’arco di diversi anni e i movimenti che lo costituiscono furono scritti secondo un ordine differente da quello definitivo. Il primo fu lo Scherzo, nel 1879, poi seguirono l’Allegro, quindi l’Adagio (1880) e il Finale (1884). I tempi sono quattro: il primo è un’introduzione Grave che sfocia in un allegro, Leidenschaftlich bewegt (Appassionato agitato); seguono lo Scherzo, Resolut ed un ampio adagio (Langsam), quindi il finale: Sehr lebehaft (Molto allegro)
.
Il quartetto nella versione definitiva fu pubblicato ed eseguito il 3 febbraio del 1903, molti anni dopo il periodo della composizione. Se la critica ha rilevato gli inevitabili influssi beethoveniani (ed in modo particolare degli ultimi quartetti) e wagneriani (Lohengrin), va anche sottolineata l’audacia febbrile di una scrittura strumentale di inaspettata efficacia, che trama una texture nervosa e cangiante.
Un’opera a suo modo profetica che racconta quasi la trama di un romanzo di formazione e che ci suggerisce l’immagine di ciò che l’autore – forse – sarebbe diventato se non avesse scelto una strada diversa. Non osiamo supporre che la rinuncia a cui allude il motto faustiano sia questa e quindi il legame con Goethe è destinato a rimanere una sorta di programma segreto.

Aperto nel nome di Haydn – Grande Padre di quasi tutto, quartetto d’archi compreso -, il programma della serata propone, in prima italiana, anche una pagina del compositore inglese Matthew Taylor dedicata al quartetto Schidlof. I tre movimenti di cui è composto lo String quartet n. 3 (Allegro vigoroso, Poco Allegretto e misterioso, Vivace) si aprono con una sorta di sigillo armonico, un marchio politonale dal quale travasa il materiale di base. Le figure che scaturiscono da questa sorta di denso monolite si condensano in zone fortemente caratterizzate (e differenziate a seconda del carattere del singolo movimento) che rivelano l’intenzione di arrivare senza mediazioni all’ascoltatore: una sorta di segnaletica sonora che aiuta ad avventurarsi nei percorsi, impervi ma nitidi, della trama musicale.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

IL TRILLO DEL DIAVOLO
di Michele Dall’Ongaro

Sembra che l’accostamento tra Paganini ed il diavolo sia farina del sacco di Goethe ed è quindi per merito di entrambi se l’aura luciferina del violino a tutt’oggi non sembra estinguersi. Una sorta di staffetta retorica che dal tartiniano Trillo al soldato della Histoire di Stravinskij ha condotto ai giorni nostri il testimone di una convenzione felicemente sinistra. Inevitabile dunque imbattersi, seguendo il percorso, in una pagina come la Fantasia concertante su temi del Faust di Gounod, ventesima fatica del virtuoso compositore polacco Henryk Wieniawski (1835-1880) e duplice omaggio alla popolare opera del francese come al virtuosismo deliziosamente “fine a se stesso”.

Famiglia di musicisti, i Wieniawski non si risparmiarono: oltre al Nostro anche un fratello pianista, un altro tenore, una figlia compositrice e un nipote compositore, per rimanere ai primi rami dell’albero genealogico. Girando il Vecchio e il Nuovo mondo, Henryk butta giù una gran quantità di pezzi tagliati sulla sua misura di esecutore dove l’omaggio agli hits dell’epoca si fonde ad un sano culturismo violinistico che raccoglie con spavalda brillantezza schegge dell’eredità paganiniana. Come polo opposto di questo pezzo ci si può limitare a segnalare la Sonata in fa minore op. 80 di Prokof’ev, una delle pagine più cupe e intimamente dannate del musicista russo. Iniziata nel 1938 ma compiuta nel ’46, la prima sonata (sorella di un gruppo di opere denominate Pagine di guerra) è uno dei pochi esempi di musica esclusivamente al nero di Prokof’ev, accostabile alla Terza Sinfonia e – ovviamente – alla sua diretta ispiratrice, l’opera L’angelo di fuoco, dove – tra streghe e inquisitori – fanno capolino anche Faust e Mefistofele nella memorabile scena della trattoria.
Musica nera dunque, dove il virtuosismo non porta ad alcuna catarsi bensì al suo contrario: una sorta di contrappasso dantesco dove il virtuoso è condannato ad una pena eterna fatta di scale, arpeggi e ancora scale e arpeggi. Per sempre.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

 

VOCI VIENNESI PER LA POESIA DI GOETHE
di Quirino Principe

Abbiamo detto più volte, usando un’amabile metafora, che il Lied austro-tedesco è un impero, un Mondo. Non mancano le città turrite (i grandi cicli di Schubert e di Schumann), i giardini (Mozart, Beethoven, Franz, Comelius, Mendelssohn), le campagne ridenti (Brahms), i palazzi arredati con gusto squisito (Strauss), le fortezze ai confini lungo il deserto dei tartari (Mahler), le spedizioni avventurose oltre confine (Schönberg, Berg, Webern, Apostel), le colonie o le rappresentanze diplomatiche “in partibus infidelium” (Krenek, Goldschmidt), le plaghe desertiche (Knab), le foreste (Pfitzner), le sale riservate a fervidi colloqui (Liszt). Ma le metafore non vivono nel tempo rettilineo della storia e non si estendono nello spazio euclideo: il loro tempo è circolare, il loro spazio è curvo come il cosmo e annulla le distanze. Così, nell’impero del Lied, province tra loro lontane finiscono per toccarsi.

Il concerto di Luisa Castellani e Antonio Ballista avvicina, non a caso, Lieder di Franz Schubert (Lichtenthal, allora sobborgo di Vienna e oggi pieno centro della città, 31 gennaio 1797 – Vienna, 19 novembre 1828) ad altri di Anton Webern (Vienna, 2 dicembre 1883 – Mittersill presso Salisburgo, 15 settembre 1945).
Diversissimi per carattere, lontani nello stile (soprattutto perché le vie tortuose del tempo storico li allontanarono) i due musicisti hanno qualcosa in comune. Entrambi viennesi di nascita e di radici, entrambi morti in modo particolarmente lugubre, traumatico e iniquo: Schubert per povertà estrema che gli impedì di curare una malattia curabile e lo confermò nella persuasione che il mondo non era un posto destinato a lui. Webern colpito dal proiettile di un militare americano che, vedendo nel buio della sera il puntino luminoso di una sigaretta accesa dal compositore nel giardino della casa di suo genero, sospettato come contrabbandiere, credette doveroso sparare a un delinquente.
Della morte di un genio come Schubert, provocata dal crudele cinismo della società, la Vienna di allora non mostrò di vergognarsi: la morte di Webern fu spacciata per “incidente” dalla censura dei cosiddetti liberatori.
Forse la morte dell’uno può essere intesa come metafora della morte dell’altro, e viceversa: nascoste radici s’intrecciano nel buio, sotto terra. Troppo diversa, si dirà, è la musica dell’uno da quella dell’altro, perché si possano istituire raffronti e intuire legami. Ma entrambi s’immersero nella musica come ci s’immerge in una materia dolorosa che fa male sulla pelle nuda, senza le mediazioni di una pur nobilissima retorica. Tutti i viennesi – di nascita o di radicamento e trapianto – che ci hanno manifestato in musica il “male di vivere”, hanno in sé qualcosa di schubertiano, di ramingo e di emarginato: Mahler, Schönberg, Berg, Webern. Del resto, proprio Webern cercò in Schubert un oggetto privilegiato di rielaborazioni strumentali: per orchestra, trascrisse tre tempi di sonate pianistiche schubertiane, il II della D. 845, il III della D. 568, il II della D. 575; per violino e orchestra trascrisse cinque Lieder, Tränenregen da Die schene Müllerin, Ihr Bild da Schwanengesang, la romanza della nutrice da Rosamunde, Der Wegweiser da Winterreise, Du bist die Ruh. Non è forse, questa, una professione di fede, una dichiarazione di consanguineità?

La poesia di Johann Wolfgang von Goethe è un elemento connettivo, una sorta di suggello culturale e di marchio di garanzia, per tutti i compositori austro-tedeschi di Lieder. Lo è anche per Schubert e per Webern nel loro reciproco rapporto. È singolare che Goethe, tedesco occidentale, di Francoforte sul Reno, e lontano dall’indole e dall’aura danubiana, abbia ispirato – lui, trapiantato e morto all’Est ma molto più a nord di Vienna, e precisamente nella sassone Weimar – non soltanto liederisti tedeschi del nord e del nord-est (Schumann, Brahms), ma anche e soprattutto viennesi, austro-boemi e in genere mitteleuropei. Ed è altrettanto singolare che nei loro Lieder viva, di Goethe, non tanto la vena olimpica quanto quella ctonia, simile a un fiume sotterraneo: così Schubert, Wolf, Mahler (nell’Ottava Sinfonia). Come il sassone Schumann e come l’austro-vendico Wolf, così Schubert mise in musica i canti di Mignon, fra le pagine memorabili del romanzo Wilhelm Meisters Lehrjahre.

Ma altri canti, facilmente isolabili e liricamente autonomi, vennero dal goethiano Faust ad ispirare i liederisti che a Vienna svilupparono la propria arte. Schubert rivestì di suoni e di pensiero musicale due celebri canzoni di Margherita, Gretchen am Spinnrade (il compositore ideò quella musica quando aveva diciassette anni, nel 1814) e Der König in Thule. D’ispirazione faustiana è il Geistes-Cruss in cui uno spirito misterioso e cosmico invia il proprio saluto ai mortali dall’alto di un’antica torre (“Hoch auf dem alten Turme”). Questi versi, cui Goethe affida in stile sublime le sue visioni trascendenti, si associano a una musica che sembra uscire da un artista più che maturo, i cui capelli argentei ben si adattano all’austera solennità dell’argomento: Schubert la scrisse a diciotto o diciannove anni (1815 o 1816) e lo capiremmo anche dal numero relativamente basso del catalogo (D.) di Erich Otto Deutsch: D. 142.
Su testi di Goethe sono anche gli altri Lieder schubertiani in programma, Nachtgesang, Trost in Tränen (entrambi scritti di getto il 30 novembre 1814) e Schäfers Klaglied (anch’esso del novembre 1814, ma imprecisato è il giorno).
In Nachtgesang, l’ispirazione di Schubert evoca già in piccole dimensioni, quasi in una miniatura, le incantate atmosfere notturne che si leveranno magiche nell’aria in Lieder più tardi e più grandiosi come Nachtstück e Nacht und Träume. Su un tema ricorrente in Schubert, le lacrime, occasione di suoni cristallini e di filigrane pianistiche in cui il suono si frammenta in minute gocce, è Trost in Tränen, studio preliminare per il mirabile e invernale Gefrorne Tränen che troviamo nel ciclo Winterreise e in cui si parla dei due dolori che s’intrecciano, uno fisico, il gelo crudele dell’inverno, e uno spirituale, l’esilio e l’abbandono. In Schäfers Klaglied, il testo di Goethe fa del “lamento del pastore” che è nel titolo qualcosa che anticipa l’altezza sovrana e tragica di una lirica italiana che, in virtù del suo autore, Giacomo Leopardi, è in realtà assai poco italiana per stile e severità, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Nella musica ideata da Schubert per questo Lied, l’iniziale ritmo di siciliana in Do minore abbandona presto la semplicità del dettato melodico e dell’essenzialità armonica per avventurarsi in asprezze dissonanti e in tempestose zone di accordi ribattuti.

Nel lascito liederistico di Webern, le occasioni in cui i canti nascono da testi goethiani sono rare ma preziose. Tuttavia, un paradosso fa sì che Schubert sia omologo a Webern proprio per l’inevitabile scelta degli autori dei testi: come Schubert attinse spesso a Goethe (1749-1832), nato quarantotto anni prima di lui e che fu suo contemporaneo (poiché l’esistenza di Goethe comprende e scavalca la breve vita del musicista viennese), così Webern si volse di preferenza a poeti del suo tempo (Dehmel, Weigand, Trakl, Kraus, Hildegarde Jone) o di non molto anteriori (Nietzsche, Greif). Gli otto Lieder giovanili del 1901-1904 furono a lungo ineseguiti e inediti. La prima esecuzione ebbe luogo a Seattle negli Stati Uniti il 27 maggio 1962, diciassette anni dopo la morte dell’autore: a tre anni dopo risale la prima edizione (C. Fischer, New York 1965). Tief von Fern e Aufblick sono su testi di Richard Dehmel (1863-1920), Blumengruß è da Goethe, Bild der Liebe da Martin Greif (pseudonimo del bavarese Friedrich Hermann Frey, 1839-1911), Sommerabend da Wilhelm Weigand (1862-1949), Heiter da Friedrich Nietzsche (1844-1900), Der Tod dal più antico Matthias Claudius (1740-1815) notissimo come autore della macabra poesia Der Tod und das Mädchen messa in musica da Schubert, Heimgang in der Frühe da Detlev von Liliencron (1844-1909).
La musica di Webern, in questi otto Lieder, ha un carattere tardo romantico. Qui, come nelle ambiziose composizioni sinfoniche da lui scritte in quegli anni d’apprendistato (fra esse, è affascinante Im Sommerwind), Webern ha per modelli Reger, Pfitzner, Zemlinsky e, in parte, lo stesso Mahler da lui tanto ammirato.
Non pochi anni trascorrono da questi otto Lieder senza numero d’opera e i Vier Lieder op. 12, composti i primi tre nel 1915-1917, in piena guerra mondiale, e il quarto e ultimo, il goethiano Gleich und Gleich, nell’ottobre 1926. Der Tag ist vergangen è su testo di Peter Rosegger (1843-1918), Schien mir’s als ich sah die Sonne è su una traduzione tedesca di una lirica dello scrittore svedese August Strindberg (1849-1912). Insolita, per l’immagine del “flauto misterioso”, è la scelta di un antichissimo poeta cinese, Li Taj-Po, nel Lied n. 2, Die geheimnisvolle Flöte. Li Taj-Po (699-765) è considerato il maggior poeta della lirica cinese classica, Webern lo lesse nella famosa antologia Die chinesische Flöte in cui Hans Bethge (1876-1946) tradusse o meglio rielaborò traducendo un vasto repertorio di liriche cinesi, e alla quale attinse Mahler per i testi di Das Lied von der Erde.
I Vier Lieder furono eseguiti per la prima volta, tutti insieme, nel gennaio 1927. Con essi comincia nello stile di Webern, quasi impercettibile, una svolta: il primo e l’ultimo sono brevi aforismi, mentre i due intermedi si espandono in linee melodiche deformate da una sintassi armonica che procede verso l’avventura politonale e seriale.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)