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Teatro Quirino
dal 3 al 24 novembre 1997
25romaeuropa.net

La via della seta


La via della seta
CONCERTO DI MONÂJÂT YULCHIEVA (Uzbekistan)
Interpreti Monâjât Yulchieva (voce), Shawqat Mirzaev (rabâb), Ahmatjon Dadaev (ghidjak), Shohrat Razakov (dotâr, doïra)
3 novembre

CONCERTO DI MOHAMMAD REZÂ SHADJARIÂN E DARIUSH TALA’I (Iran)
Interpreti Mohammad Rezâ Shadjariân (voce), Dariush Tala’i (setâr e târ), Said Faradj Pouri (kamantcheh), Homayoun Shadjariân (tombak)
10 novembre

CONCERTO DI ALIM QASIMOV (Azerbaijan)
Interpreti Alim Qasimov (voce e daf), Malik Mansurov (târ), Elshan Mansurov (kamantcheh)
24 novembre

I tre concerti proposti dal Romaeuropa Festival rappresentano altrettante tappe lungo la mitica Via della Seta e danno voce alla musica tradizionale di paesi asiatici spesso esclusi dalle rassegne internazionali, come l’Uzbekistan, l’Iran e l’Azerbaijan. Alle note dell’Uzbekistan spetta l’inizio di questo viaggio suggestivo, grazie al canto di una interprete come Monâjât Yulchieva: accompagnata dal maestro e mentore Shawqat Mirzaev, che si esibisce spesso al suo fianco, la Yulchieva ha riletto un genere tradizionalmente maschile del maqâm adattandolo ai registri della sua voce da soprano e ottenendo un impasto sonoro di grande fascino, aderente al patrimonio musicale classico del suo paese e al tempo stesso profondamente innovativo. La seconda tappa è l’Iran di Mohammad Rezâ Shadjariân, uno dei grandi protagonisti della musica tradizionale persiana, capace come pochi delle ampie improvvisazioni vocali richieste dal radif, le cui melodie costano lunghi anni di apprendimento. Infine, l’Azerbaijan, ultima stazione del viaggio lungo la Via della Seta, con la voce potente di Alim Qasimov, il cui repertorio attinge soprattutto alla tradizione dei bardi âshiq, che, a differenza del maqâm, si è sviluppata nell’ambiente rurale del sud del paese: “Nel mio paese – spiega Qasimov, illustrando alla perfezione la difficoltà e la bellezza del concerto – tutti comprendono il significato del testo. In Occidente, invece, devo trasmettere il senso unicamente attraverso la voce e le sue inflessioni, puntando tutto sulla musica”.

Rassegna stampa

“Monâjât Yulchieva, in un recital che ha lasciato in molti più di un caro ricordo, ha disvelato le “intrusioni” musicali raccolte e assimilate dalla sua terra. Il suono dell’Uzbekistan, la regione meridionale dell’Afghanistan, ha raccolto senza gelosie e recriminazioni due correnti fondamentali. Come mostrano gli accenti tipicamente turchi della musica tradizionale e le mosse melodiche e poetiche mediorientali (nuba, malouf) dei brani classici. La splendida e scura vocalità della Yulchieva accompagnata dal mobile bordone del rabâb (suonato da Shawqat Mirzaev, suo maestro privilegiato) scorre lungo l’improvvisazione diafana delle introduzioni prima di raggiungere gli sviluppi concitati della seconda sezione delle composizioni.
È qui che si aggiungono i liuti saggiamente amministrati da Shohrat Razakov (dotâr, in alcuni casi sostituito da un tipico tamburo a cornice) e Ahmatjon Dadaev (ghidjak). Basta un piattino da thè, poi, che la cantante avvicina e respinge dalla sua bocca per intervenire sulle vibrazioni dell’aria, ad indicarci come sia proprio la casa da thè il luogo privilegiato di questa musica che parla d’amore, di spirito e degli intrighi del potere”.
(Luca Perini, Monâjât Yulchieva nella casa del thè, Il Manifesto, 5 novembre 1997)

“L’ultimo appuntamento di questo percorso curato da Romaeuropa e simbolicamente denominato “La via della seta”, è stato quello con l’azero Alim Qasimov. Un’altra voce di straordinaria intensità ed abilità esecutiva, accompagnata da strumenti tradizionali suonati da lui stesso (il daf), e dai musicisti Malik Mansurov (al târ) e Elshan Mansurov (al kamantcheh). […] Qasimov attinge il suo repertorio dalla tradizione dei bardi âshiq, che a differenza del maqâm si è sviluppato in un ambiente prettamente rurale. Con il tono grave e sensuale di una voce di singolare vigore espressivo, le immagini della fatica e dell’attaccamento alla terra, della sofferenza e poi dell’amore, del desiderio e del rimpianto si insinuano dolci e malinconiche come un brivido sotto la pelle. Con la violenza di una passione che esplode, un mondo inaccessibile alle parole prende forma, avvolge e inebria”.
(Maria Pia D’Orazi, Brividi per una voce, Il Giornale di Roma, 25 novembre 1997)

LA VIA DELLA SETA
di Marco Boccitto

Benvenuti sulla Via della Seta, perché una strada così solenne rappresenta oggi un valore. Infatti è ormai chiaro che con la diffusione di modi sempre più rapidi di spostarsi, sia andato irrimediabilmente perdendosi l’essenza stessa del viaggio: che vuol dire muoversi da un luogo all’altro, facendo bene attenzione ad attraversare, conoscere, annusare tutto quello che c’è in mezzo. L’interzona, che per altri versi sembra andare molto di moda, giace suo malgrado in un persistente cono d’ombra. Normale, quindi, che a proposito di un percorso come quello che suggerisce il titolo di questa sezione del Romaeuropa Festival ’97, ci sia innanzitutto la necessità di scardinare il luogo comune di un’Asia veramente Minore, meno esposta ed appariscente. Un Oriente che pure ha conosciuto greci, persiani (una dinastia musicofila come quella dei Sassanidi), arabi, turchi, influenzandone e metabolizzandone l’arte. Ha preso, dato, ancora preso e ordinatamente messo da parte. Ha visto nascere nelle sue città raffinate musiche d’arte, poetiche fragranti e spiritualità infuocate.

L’appuntamento, quindi, è all’incrocio tra la Via della Seta e quella, altrettanto importante, del radif, il repertorio classico della musica persiana. O del maqâm (makam, mugham, ecc.), l’antico e complesso sistema musicale diffuso dalla Mesopotamia al Nilo, sulle piste del deserto e lungo la transcaucasica, dal mondo arabo all’Asia centrale, da Tunisi a Samarcanda. Sfoggio di abbandono nell’erudizione, e viceversa. Il canone come baricentro, non in segno di pigra e ossequiosa subalternità ma per rendere più avvincente e sfumato il gioco di ogni nuova creazione. Musica colta, che però non ha motivo di essere contrapposta a quella popolare.
Nell’Azerbaijan di Alim Qasimov , ad esempio, anche i più virtuosi esponenti del mugham, educati nelle rinomate scuole del Nord, possono vestire i panni degli ashik, i cantastorie tradizionali che ancora spopolano nel Sud. E spesso accade anche il contrario. Contemporaneamente daf, tar, kamancha e altri strumenti di origine contadina vengono volentieri integrati nei ranghi delle orchestre sinfoniche. E la stessa attenzione per i diversi strati della sfera musicale di un popolo trova riscontro nell’arte vocale della cantante uzbeka Monâjât Yulchieva, nelle fratture microtonali del maqâm locale.
Alto e basso, la regola e il suo superamento. Persino nelle trasparenze abissali del radif iraniano – il canto classico nel quale Mohammad Rezâ Shadjariân è un interprete superbo – dove si sarebbe tentati di ravvisare una purezza assoluta, una stasi prossima alla perfezione, la tensione che si crea tra il millenario labirinto melodico e l’istinto all’improvvisazione, tra il verso poetico e la frase musicale, è la scintilla che sposta ogni volta i limiti, gli estremi di questo tragitto.
Buon proseguimento.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)