La rassegna Nuovi Spazi Musicali, diretta dalla compositrice Ada Gentile e ospitata dall’Accademia d’Ungheria, inaugura l’edizione del 1990 del Romaeuropa Festival e si pone come primo risultato di una collaborazione iniziata quest’anno tra il Festival ed i maggiori istituti culturali europei presenti a Roma.
Il cartellone, che si articola in ben cinque concerti, comprende musica contemporanea italiana ed ungherese, spesso composta proprio per l’occasione e presentata quindi in prima assoluta nella cornice del Festival. Alcuni degli autori coinvolti, come Michele Dall’Ongaro o Mauro Cardi, hanno avuto il compito di introdurre le esecuzioni, affidate ad ensemble di formazione recente (l’Accademia Strumentale di Fiati, l’Ars Ludi Percussione – Ricerca) o a solisti di lungo corso, quali Márta Fábián e Ágnes Szakály, virtuose del cimbalon, o Csaba Onczay e Laszlo Baranyay, rispettivamente violoncellista e pianista.
Tra le partiture sono emerse quelle di György Kurtág e György Ligeti, punti di riferimento imprescindibili per la musica contemporanea ungherese, due autori che a partire dagli Anni Cinquanta hanno saputo rielaborare in modo personalissimo la lezione di Béla Bartók.
DA BARTÓK VERSO IL FUTURO
di Michele dall’Ongaro
Ci sono almeno due buoni motivi per occuparsi della musica moderna ungherese: perché offre molte opere di grande bellezza e perché la musica colta autenticamente ungherese nasce – secondo alcuni – proprio nel ventesimo secolo. Il musicologo Antal Molnàr pensa che le cause di questo ritardo siano da cercarsi nel mancato sviluppo della borghesia magiara “nell’epoca in cui in Occidente proprio quel ceto favoriva e promuoveva l’evoluzione culturale”.
Ma quali le ragioni storiche e sociali di questo “mancato sviluppo”?
Molnàr ne indica alcune: 1) scarsa coesione – nell’antica Ungheria – tra comunità di slovacchi, russo-carpati, croati, serbi, tedeschi, romeni e magiari: un paese, quindi, unito economicamente e politicamente, ma non culturalmente; 2) distruzione delle poche tracce di comunità culturale tra diverse classi sociali provocata dalle guerre combattute nel Seicento; 3) continue migrazioni etniche facilitate – tranne nel Nord – dalle scarse barriere naturali; 4) conseguenze devastanti delle continue occupazioni dei tartari, dei turchi e – quella “interna” – degli ottomani durata 150 anni; 5) l’idioma ugro-finnico che isolò linguisticamente, nell’Europa centrale, la popolazione turco-mongola; 6) scarsità di traffici commerciali e culturali causata dall’assenza di coste; 7) condizioni meteorologiche estremamente variabili. Come se non bastasse dopo la liberazione dai turchi (1686) l’Ungheria divenne – di fatto – una provincia austriaca e la classe borghese si costituì all’inizio grazie soprattutto all’apporto di coloni tedeschi. Anche durante l’Ottocento i compositori ungheresi colti sono in prevalenza di lingua tedesca. “Inoltre – conclude Molnàr – mentre in nazioni a evoluzione normale le conquiste della musica popolare venivano assorbite dalla musica colta, in Ungheria la musica contadina rimase quasi sconosciuta negli strati sociali più elevati. L’autentica musica popolare ungherese – il prodotto spirituale più originale del paese – aspettava ancora nel 1904 di essere scoperta”. Siamo arrivati così al punto principale: la presa di coscienza da parte dei compositori ungheresi dello straordinario patrimonio artistico racchiuso nella loro terra. È infatti grazie a questa scoperta che la musica ungherese si affranca definitivamente dall’influenza austro-tedesca per sperimentare nuove formule; non si può quindi parlare della recente produzione musicale di questo paese senza ripercorrere le tappe della grande avventura che ha portato allo studio del folclore magiaro.
Per secoli si è identificata la musica contadina ungherese con quella propinata dalle bande zigane che, per il piacere della neonata borghesia cittadina, si esibivano nei locali e nelle piazze proponendo melodie dal carattere popolareggiante “abbellite” dai tipici virtuosismi gitani.
In realtà – come ci ha insegnato Béla Bartók – gli autori delle melodie (noti o ignoti) provengono dalla classe borghese ungherese e i diffusori sono appunto le bande zigane, e questo spiega il motivo per cui questa musica è detta zigana. Ma anche Bartók ammetteva la reciproca influenza tra i genuini canti contadini e i canti colti popolareschi. Ma cosa è la vera musica contadina? “Il prodotto di un’opera di elaborazione compiuta da un istinto che agisce inconsapevolmente negli individui non influenzati dalla cultura cittadina”, risponde Bartók (Scritti sulla musica popolare, a cura di Diego Carpitella, Universale Scientifica, Boringhieri, Torino, 1977). Un grosso contributo nella diffusione dell’equivoco lo aveva fornito – in perfetta buona fede – Franz (Ferenc) Liszt. Nel 1859 aveva affermato in un saggio (Des bohémiens et de leur musique en Hongrie) che la musica zigana era da riconoscere come unica, vera forma d’espressione genuinamente magiara (“un errore madornale”, secondo Zoltàn Kodàly). Per quanto musicologicamente sbagliata, la posizione di Liszt ebbe il merito di attirare sui problemi musicali ungheresi l’attenzione degli intellettuali dell’epoca per i quali – giova ricordarlo – riconoscere dignità artistica a manifestazioni di presunta origine popolare rappresentava certamente un bello sforzo.
Di fatto l’equivoco si protrasse a lungo (quante rapsodie ungheresi…) anche se nel 1896 accadde qualcosa di nuovo: l’ungherese Bela Vikàr realizza – grazie all’invenzione di Edison – le prime registrazioni di canti popolari del suo paese. Spinto da motivi linguistici più che musicali Vikàr apre così la strada ai due pionieri dell’etno-musicologia: Bela Bartók e Zoltàn Kodàly.
“Una circostanza aveva in quel periodo esercitato su di me un’influenza decisiva – racconta Bartók -, alludo alla corrente di pensiero che andava scoprendo e rivelando i valori tradizionali della nostra cultura nazionale”. Le melodie raccolte dai due ricercatori pare assommino a oltre 15.000 mentre la loro attività etnomusicologica è ancora oggetto di studio in tutto il mondo. Ma dal punto di vista dell’attività creativa le esperienze di Kodàly e di Bartók non si possono accomunare. Per quanto abile e intelligente nell’uso del folclore magiaro Kodàly si limita nelle sue opere a rivestirlo di eleganti armonie arricchite da brillanti colori orchestrali. Sembra mancare però una severa indagine sul materiale e così l’esperienza di questo autore – fondamentale nello sviluppo del costume musicale ungherese, e in particolare nella didattica – appare priva di quella tensione che caratterizza il pensiero e l’opera del suo compagno di viaggio. Infatti Bartók non si ferma al dato popolare “oggettivo” ma sviluppa gli elementi di novità, rispetto alla tradizione colta, in esso contenuti.
Il dissolvimento dell’impalcatura tonale stava conducendo Schönberg sul cammino della dodecafonia; mentre Debussy aveva svuotato di ogni funzione la logica convenzionale delle concatenazioni armoniche. All’alba del nostro secolo tutti gli elementi della sintassi tradizionale venivano sbriciolati nel tritatutto di una crisi sfociata nei due conflitti mondiali. In questo contesto Bartók scopre un mondo ideale (“privo di scorie”, dirà) dove trova le risposte alle domande del tempo. Ecco quindi apparire tecniche basate su invenzioni timbriche, scale extratonali, ritmi articolatissimi, microintervalli e nuovi procedimenti di elaborazione. Da queste intuizioni nascono le opere più vitali della nuova scuola ungherese. In particolare – mentre alcuni autori continuano a trastullarsi con danze “alla zingaresca” – György Ligeti (1923) e György Kurtág (1926) proseguono l’opera del maestro, non nel segno di mero epigonismo ma di sviluppo ideale e fertile.
Oggi nella nuova Ungheria si lavora febbrilmente: il primo secolo di storia è stato scritto, ora bisogna andare avanti.
Rassegna stampa
“Sta al centro di piccoli complessi strumentali (un violino, un clarinetto, un contrabbasso), nero, su quattro zampe che reggono un tavolo trapezoidale. È il cymbalom, favoloso strumento tzigano, il cui timbro ha oggi soprattutto una risonanza ungherese. All’interno del trapezio si tendono corde che vengono toccate con bacchette. Strumento antico, è giunto all’attenzione della musica d’oggi. […] Una coppia di questi strumentisti, un Duo costituito da Márta Fábián e Ágnes Szakály, ha inaugurato presso l’Accademia d’Ungheria, la stagione dei Nuovi Spazi Musicali, che ha dato il via, a sua volta, al festival RomaEuropa 1990. ne sono protagonisti, oltre che quella d’Ungheria, anche le Accademia di Francia, Germania, Spagna e il British Council.
Da quella che poteva essere la sorpresa del cymbalom in Erkel, Liszt, Kodály, Bartók e il primo Kurtág (avremmo potuto avere una più sfumata “storia” di questo strumento nel gusto moderno), si è giunti ad una sorta di convenzionale, manieristico “omaggio” al cymbalom, da parte di compositori che hanno, suppergiù, tutti da dire la stessa cosa. È venuta in primo piano piuttosto una monotonia che una ricchezza del cymbalom, che non ha, però, sminuito la fondamentale bravura delle due musiciste, virtuose dello strumento. Ciò diciamo non senza riconoscere l’eleganza della scansione ritmica degli Intermezzi di Ivan Patachich, l’intensità della Meditatio (1989) di István Vántus, un’aristocratica finezza al Capriccio interrotto (1989) di Pál Rózsa, la vitalità di un Duo (suite di sette pezzi) di István Lang. Successo e pubblico tantissimi”.
(Erasmo Valente, Meraviglie del “cymbalom”, l’Unità, 12 maggio 1990)
“C’era la sensazione edificante di partecipare a una festa europea estesa ai paesi dell’Est, l’altra sera, al concerto dell’Accademia d’Ungheria che ha inaugurato la rassegna Romaeuropa. Da quest’anno il festival Romaeuropa non riguarda più soltanto l’Accademia di Francia, ma coinvolge alcune consorelle: l’Accademia Tedesca, quella di Spagna; per l’Inghilterra, il British Council; e, appunto, l’Accademia d’Ungheria, i figli d’arte di Bela Bartók. […]
Protagoniste della serata inaugurale, erano due grandi virtuose di cymbalom, antichi strumenti a corde di origine asiatica, importanti secoli fa nella sola Ungheria. Márta Fábián e Ágnes Szakály hanno promosso il cymbalom al ruolo di strumento solista. Stravinskij lo aveva incluso nell’organico della Histoire du soldat, ma nessuno ne tenne mai conto, nelle esecuzioni, perché fuori dall’Ungheria il cymbalom era introvabile. […] Osservando l’abilità funambolesca delle due interpreti, e ascoltandole, si viene colti da sgomento. Evidentemente per gli ungheresi il cymbalom è dotato di magiche attrattive. Fra i dieci compositori contemporanei che gli hanno dedicato i brani ascoltati, era difficile definire una qualche identità personale: Ivan Patachich, István Vántus, Miklós Csemiczky, István Bogár, Máte Hóllós, Pál Rózsa, István Lang, Jenó Pertis; l’unico risultato poeticamente diverso era György Kurtág. D’altra parte è difficile individuare il volto di un musicista quando l’esigenza di presentare tante novità, nello spazio di una o due ore, riduce l’ascolto a una sorta di campionario”.
(Mya Tannenbaum, Due muse al cimbalom. La terza al clavicembalo, Corriere della Sera, 10 maggio 1990)
“Nel secondo appuntamento dei “Nuovi Spazi Musicali” , la rassegna coordinata da Ada Gentile che apre l’edizione ’90 del Festival RomaEuropa, sono state proposte, appunto dal Quartetto Aquilano, ben quattro prime esecuzioni assolute: Alberi di Riccardo Bianchini, Jongleurs, di Pier Michele Bertaina, Dal fondo, la luce, di Piera Pistono, e Quartetto per sax n. 1, op. 26.
La prima considerazione che viene di fare è che c’è una sorta di costante nelle quattro composizioni: e cioè la vocazione jazzistica. Può essere più lontana per qualcuno (Bianchini e la Pistono), incombente per altri (Bertaina e Marocchini), ma pare irrinunciabile, forse connaturata alla voce stessa dei sassofoni. Insomma l’operazione somiglia, per contrasto, a quella compiuta sulla costa del pacifico negli anni Cinquanta, quando formazioni jazzistiche più o meno occasionali (per lo più messe insieme dagli orchestrali di Kenton in libera uscita) si riempirono di flauti, oboi, corni inglesi e qualcuna persino di violoncelli, clarinetti bassi e corni francesi. Ora accade il contrario: e bisogna dire che la commistione ha effetti più decisi di quelli di allora. […]
I quattro aquilani sono molto bravi, anche se non affiorano distintamente le qualità individuali all’ascolto di brani in cui conta più il raggruppamento di suoni che non l’impennata solistica, e tutto è in funzione della fusione delle voci e dell’equilibrio dei volumi”.
(Virgilio Celletti, Un “Quartetto Aquilano” che fonde voci e suoni e “gioca” con il jazz, Avvenire, 12 maggio 1990)
“Alle 20.30 la Saletta di Palazzo Falconieri era già piena, un pubblico giovane, composto, venuto per ascoltare l’ultimo concerto del Festival RomaEuropa organizzato da Nuovi Spazi Musicali. Un omaggio a sei compositori nati nei primi anni trenta e che hanno in comune molto dello spirito della musica popolare ungherese. I lavori presentati nella serata, come è ormai in larghissimo uso nella musica d’avanguardia, sono stati scritti per due strumenti solisti, un violoncello e un pianoforte, e in alcuni casi dedicati ad uno strumentista vivente: il violoncellista Csaba Onczay. Questo concertista, tra i più affermati, non solo in Ungheria, ha aperto la serata con la Sonata per violoncello solo di András Borgulya in prima esecuzione assoluta. Di media statura e di massiccia corporatura, Onczay ha immediatamente messo in luce la sua personalità: quella di un musicista dotato di grande temperamento e tecnica virtuosistica abbinata ad una felice capacità di fraseggio”.
(Giulia Bondolfi, La musica può essere anche un gioco, Il Messaggero, 24 maggio 1990)
Crediti
Presentati da Michele Dall’Ongaro, Riccardo Bianchini, Mauro Cardi, Piero Acquafredda
Musica Miklós Csemiczky (Capriccio Interrotto), István Bogár (Duo), Máte Hóllós (Impromptu), István Vántus (Meditatio), Ivan Patachich (Intermezzo per due cimbalon), Jenó Pertis (Cinque bagatelle), Pál Rózsa (Toccata con intermezzi), István Lang (Duo), György Kurtág (Splinters)
Interpreti Márta Fábián (cimbalom), Ágnes Szakály (cimbalom)
Presentazione Michele Dall’Ongaro
7 maggio
Musica Riccardo Bianchini (Alberi), Pier Michele Bertaina (Jongleurs), Piera Pistono (Dal fondo, la luce), Enrico Marocchini (Quartetto per sax n. 1, op. 26), Ernst von Dohnányi (Rapsodia in Fa diesis minore), György Ligeti (Studio n. 7 Galan Borong, Studio n. 8 Fèm), Franz Liszt (Variazioni su un tema di Bach)
Ensemble Quartetto di Sassofoni Aquilano
Interpreti Andrea Baggioli (solista, pianoforte), Gaetano di Bacco (sax soprano), Giuseppe Berardini (sax tenore), Fabrizio Paoletti (sax baritono), Enzo Filippetti (sax contralto)
Presentazione Riccardo Bianchini
10 maggio
Musica Giampaolo Coral (Raps x, per flauto, oboe, clarinetto e pianoforte), Riccardo Piacentini (Recherche, La queue, per quintetto di fiati e pianoforte), Corrado Pasquotti (Lirico, per quintetto di fiati), Ruggero Lolini (Nell’attimo che a squarci…., per quintetto di fiati), Hubert Stuppner (Quattro danze, per quintetto di fiati), Michele dall’Ongaro (Oirobouros, per quintetto di fiati e pianoforte), Mauro Cardi (Sestetto)
Ensemble Accademia Strumentale di Fiati
Interpreti Stefano Mancini (flauto), Alberto Cesaraccio (oboe), Antonio Puglia (clarinetto), Gavino Mele (corno), Michele Cossu (fagotto), Mariano Meloni (pianoforte)
Presentazione Michele dall’Ongaro
14 maggio
Musica Giorgio Battistelli (Uno e Trino, per un percussionista), Guido Baggiani (Monologo a due, per due percussionisti), Aurelio Samori (Frangenti, per due percussionisti), Rocco Abate (Appunti per il Dottor Sincretico, su testo di Bruno Pedretti, per voce maschile e nastro), Irma Ravinale (Non cercare mai, su testo di William Blake per baritono solo), Rosario Mirigliano (Bagatella, per arpa sola), Marcello Panni (Recondite Armonie, per arpa e percussioni)
Ensemble Ars Ludi Percussione – Ricerca
Interpreti Claudia Antonelli (arpa), Roberto Abbondanza (baritono), Antonio Caggiano (percussioni), Gianluca Ruggeri (percussioni)
Presentazione Mauro Cardi
17 maggio
Musica Sándor Szokolay (Sonata per violoncello solo), Miklós Kocsár (Variazioni per violoncello solo), Kamilló Lendvay (Fifth Music, per violoncello solo), András Borgulya (Sonata per violoncello solo), György Kurtág (Pezzi dai Giuochi, per pianoforte solo), Zóltan Durkó (Tre Rondò, per pianoforte solo)
Interpreti Csaba Onczay (violoncello), Laszlo Baranyay (pianoforte)
Presentazione Pietro Acquafredda
21 maggio